Sunday, December 16, 2007
Saturday, December 15, 2007
Oriana Fallaci, mostra a Roma
"Oriana Fallaci è una personalità incancellabile per la cultura e per il giornalismo italiano, per il suo modo di vivere la professione in modo alto, degno, frutto anche di un carattere irruente come il suo": con queste parole il ministro per la cultura Francesco Rutelli ha inaugurato oggi la mostra 'Oriana Fallaci. Intervista on la storia'. L'esposizione, fortemente voluta dal Ministero per i Beni culturali, realizzata da RCS Media Group, con la cura di Alessandro Cannavò e Alessandro Nicosia, ha già avuto un prologo a New York, durante il viaggio negli States di Rutelli; ed una prima importante tappa a Milano, dove ha raggiunto in poche settimane i 64mila visitatori. A Roma resterà aperta al pubblico fino al 30 gennaio. Ansa.it
Wednesday, December 12, 2007
Minacce ai giornalisti croati
In una sola settimana i giornalisti croati hanno subito tre brutali attacchi, che, nonostante nessuno sia stato aggredito fisicamente, hanno fatto rabbrividire l’opinione pubblica. I messaggi inviati ai giornalisti non erano solo decisamente offensivi, umilianti e volgari, ma anche piuttosto pericolosi, con minacce a cui in futuro potrebbero trovarsi a far fronte. Davanti all’ingresso del Tribunale distrettuale di Rijeka, dove si giudica Joso Mraovic, imprenditore e proprietario di un hotel a Gospic, per violenze nei confronti della giocatrice di basket americana Ilisha Jarrett, e davanti a tutti i giornalisti presenti l’accusato ha gettato uno straccio ricolmo di ossa bovine. Appellando i giornalisti "coyote", Mraovic ha detto di aver portato le ossa per farle rosicchiare da questi ultimi. “Eccovi cani, coyote, razza di banditi, rosicchiate, adesso avrete di che scrivere”, ha urlato Mraovic. A Gospic, nella provincia croata della Lika, dove Mraovic vive e lavora, a causa del suo atteggiamento che lì ha adottato lo chiamano “il Tudjman della Lika”, e quanto sia potente in questa città lo testimonia anche la scandalosa sentenza emessa per lo stesso delitto per il quale adesso viene giudicato di nuovo presso il tribunale di Rijeka. Mraovic è accusato di stupro, nella fattispecie di essere entrato, nel suo hotel, nella camera della cestita americana e di averle con violenza infilato un dito nell’ano. Al processo di Gospic Mraovic è stato prosciolto e il giudice in motivazione della sentenza ha detto che né il dito né l’ano sono organi genitali pertanto il mettere un dito nell’ano non può essere paragonato allo stupro perché in quel caso “qualsiasi stretta di mano indesiderata potrebbe essere equiparata allo stupro”. Questa incredibile sentenza è stata annullata dall’Alta corte croata, e Mraovic adesso viene giudicato a Rijeka, dove ha scagliato la sua arroganza e il suo primitivismo contro i giornalisti. OsservatorioBalcani
Tuesday, December 11, 2007
Russia, un'altra reporter in fuga
La giornalista Natalia Petrova è in pericolo. Ha parlato troppo. Ha filmato troppo. Ha denunciato la guerra in Cecenia, in Abkhazia, in Nagorno-Karabakh. Ha criticato Putin e raccontato la rivolta dei pensionati russi. Per questo, il 6 settembre scorso, tre uomini in abiti civili hanno fatto irruzione nella sua casa di Kazan, repubblica del Tatarstan, e l'hanno malmenata. Lei e le sue bambine, due gemelle di 10 anni. A una di loro è stato rotto un dente.Mentre l'anziana madre, terrorizzata, si nascondeva in giardino, il padre, Gennady Petrov, 87enne ex-colonnello dell'Armata Rossa, faceva scudo alla figlia con il suo corpo. Invano. Natalia è stata ammanettata e trascinata via dopo essere stata ridotta in uno stato di semi-incoscienza per le botte. Ha trascorso la notte in commissariato. Poi è stata sbattuta fuori, mezza morta. Con le forze residue, è tornata a casa. Ha preso le bambine, abbracciato i genitori ed è fuggita via. Adesso è nascosta da qualche parte a Mosca. Nessuno sa dove sia, salvo alcuni colleghi. Al padre, recatosi un mese dopo l'irruzione al commissariato di Kazan per chiedere spiegazioni, è stato risposto dal capo della polizia, tale Vyacheslav Prokofyev: "Tua figlia ha parlato troppo. Adesso è ricercata, su di lei pende un mandato di arresto internazionale. Di lei possiamo fare ciò che vogliamo". PeaceReporter
Messico, ucciso un altro reporter
Gerardo Garcia, un giornalista messicano, è stato ucciso presso la città di Uruapan, nello stato di Michoacan, da uomini appartenenti a un cartello della droga della zona. L'uomo sarebbe stato ucciso nei pressi di casa sua, dopo un lungo inseguimento, con 45 colpi di pistola. Lo scorso anno, ben otto giornalisti erano stati uccisi nel Paese, facendo del Messico il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti dopo l'Iraq. I cartelli della droga si contendono le lucrose rotte del traffico degli stupefacenti, che dal Sudamerica arrivano negli Stati Uniti. Le autorità hanno dispiegato almeno 25.000 uomini per combattere i cartelli della droga.
Somalia, espulsi 24 giornalisti
“Le autorità hanno posticipato di cinque giorni la nostra espulsione, dopo averci detto in un primo momento che dovevamo andarcene entro 24 ore. Adesso siamo ancora ad Hargeisa (capitale del Somaliland, ndr) ma il provvedimento resta attivo”. Lo ha detto alla MISNA uno dei 24 giornalisti su cui pende un decreto di allontanamento emesso dal governo del Somaliland, regione semiautonoma del nord della Somalia, in cui i cronisti avevano cercato riparo dopo essere sfuggiti alle violenze e alle minacce subite nella capitale. “Per molti di noi, tornare a Mogadiscio in questo momento comporta altissimi rischi” ha aggiunto l’uomo, chiedendo di rimanere anonimo per questioni di sicurezza. L’Unione nazionale dei giornalisti somali (Nusoj) ha criticato le autorità del Somaliland, che si sono giustificate con il fatto che “i giornalisti in questione mettevano a rischio la stabilità del Somaliland”. Condanne in proposito sono state espresse anche dal Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), con sede a New York, che ha ricordato che “se il Somaliland vuole diventare un territorio autonomo riconosciuto dalla comunità internazionale, deve aderire ai principi di protezione e salvaguardia dei diritti umani”. Il Cpj accusa inoltre il Somaliland di aver “punito” i giornalisti espulsi, per aver riportato notizie delle violenze commesse dalle truppe etiopi presenti sul territorio somalo in sostegno al governo di transizione di Mogadiscio, mettendo a rischio le ottime relazioni che il Somaliland intrattiene con Addis Abeba. La Somalia, le cui autorità hanno imposto di recente una forte stretta agli organi di stampa, ha assistito nel 2007 all’assassinio di 8 giornalisti, diventando secondo le associazioni per la libertà di stampa “la regione più pericolosa per gli operatori dell’informazione dopo l’Iraq”. Nelle scorse settimane, il sindaco di Mogadiscio, Mohammed Dhere, ha diffuso un “regolamento” per i media che proibisce di riferire, senza permesso, dei combattimenti e delle operazioni militari in corso nella capitale somala o di intervistare esponenti dell’opposizione al governo.
Libertà: premiato reporter eritreo
Attraverso l'esempio di questo giornalista coraggioso, detenuto nelle terribili prigioni eritree dal mese di settembre 2001 - si legge in un comunicato - la giuria del Premio "Reporters sans frontiieres-Fondation de France" ha voluto fare luce sulla drammatica situazione della libertà di stampa in questo piccolo Paese del Corno d'Africa. Nel corso degli ultimi anni, almeno quattro giornalisti vi sono morti in stato di detenzione. Reporters sans frontieres e la Fondation de France hanno deciso di ricompensare, nella categoria 'Media', la radio-televisione Democratic Voice of Burma, una delle fonti di informazioni più affidabili durante la crisi birmana. Inoltre l'Osservatorio iracheno per la libertà di stampa è stato premiato nella categoria 'Difensori della libertà di stampa' per il suo essenziale lavoro di denuncia delle innumerevoli violenze perpetrate ai danni dei professionisti dei media nel Paese. E il giovane blogger egiziano Karim Amer è il vincitore della categoria 'Cyberdissidente'. A soli 23 anni, Karim Amer è stato condannato a quattro anni di carcere per aver criticato nel suo blog la politica del presidente Hosni Mubarak. Infine, a pochi mesi dall'inizio dei Giochi olimpici di Pechino, Reporters sans frontieres ha voluto assegnare un premio speciale 'Cina' alla coppia di militanti per i diritti umani Hu Jia e Zeng Jinyan, oggi costantemente sorvegliati dalla polizia del Paese.
Iran, arrestato un altro giornalista curdo
Continua la stretta delle autorità di Teheran contro la stampa iraniana: un giornalista curdo iraniano, Omid Ahmadzadeh, è stato arrestato a Sanadanj, nell'ovest del paese. Il suo fermo segue quello avvenuto meno di una settimana fa, sempre a Sanadaj, di un altro giornalista, Reza Valizadeh. Altri 5 giornalisti curdi sono in carcere da tempo, e due di loro, Adnan Hassanpour e Hiwa Boutimar, sono stati condannati a morte. Questi ultimi due hanno ricevuto venerdì 30 novembre il premio "Città di Siena - Isf" per la libertà d'informazione. Altri due giornalisti curdi detenuti da tempo nelle carceri della Repubblica Islamica sono Aku Kordnasab, Jalal Kabudvand e Ejlal Aghvami. In totale sono 14 i giornalisti attualmente detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica, tra i quali figura anche Emadeddin Baghi, una delle firme più prestigiose del giornalismo iraniano.
Scatti dal mondo
La prima è un'inquietante immagine del Po in secca; l'ultima rappresenta un Luciano Pavarotti ancora sorridente, che uscendo da un sipario d'oro si accomiata dal suo pubblico. In mezzo a questi due estremi trecento foto che hanno segnato l'anno che sta per chiudersi. Cosi, attraverso le 'sue' foto, distribuite a tutti i media negli ultimi mesi, l'Ansa racconta l'anno che si sta chiudendo, rinnovando per la terza volta la pubblicazione di un ricco libro intitolato semplicemente 'Photo Ansa'; un volume che il direttore dell'agenzia Giampiero Gramaglia e l'amministratore delegato Mario Rosso presentano insieme ad alcuni illustri ospiti (Marini, Bertolaso, Ferrara, Manganelli, Mentana, Pratesi, Cattaneo) in un evento organizzato con Terna. Le foto, trecento scatti magistrali, sono ordinate in dodici capitoli, scelti liberamente senza alcuna preoccupazione cronologica. Ansa.it
Sunday, December 09, 2007
Agguato a un giornalista turco
Mi piange il cuore quando vedo che, negli sforzi di spiegare la Turchia, la sua storia e la sua società, si mettono in risalto solo cose negative. Adesso ne spunta fuori un'altra, sempre ad opera di quei cretini dei nazionalisti che odiano le minoranze che da secoli convivono (malgrado tante vicende) fianco a fianco in Anatolia. Ora tocca ai "rum", da non confondere coi "rom". I rum sono gli abitanti della "rumelia", ovvero la parte della Turchia nel continente europeo, ma con questa parola si designano i greci di Turchia, in qualche maniera i discendenti dei Bizantini, quelli sopravvissuti ai progrom e rimasti malgrado le migrazioni forzate e gli scambi di popolazione. Cos'è successo? Andreas Rombopulos, direttore di un quotidiano "rum" di Istanbul è stato vittima di un agguato e picchiato. Un braccio e qualche dita rotte. Diciamo anche che è stato fortunato e che magari ci scappava un altro giornalista ucciso a fine anno, giornalista rappresentante di una minoranza, sottolineamolo. E arriva proprio ora che Grecia e Turchia stanno serrando nuovi legami avvicinandosi. Cosa aspetta la società civile a mobilitarsi? Un'altra vittima?Andrea G.
Thursday, December 06, 2007
Riaperto il caso De Mauro
Un mistero senza fine. Trentasette anni dopo la scomparsa del giornalista de L'Ora Mauro De Mauro, il giudice di Palermo riapre l'inchiesta. Tra poche settimane, il Dna ricavato dalle ossa riesumate nel "cimitero della 'ndrangheta" a Conflenti, potrebbe chiarire se quei resti sono del reporter palermitano. In quel camposanto calabrese, un pentito aveva svelato che sotto la croce che segnava la tomba di un malavitoso, in realtà era stato sotterrato il giornalista. Ma le ruspe hanno disseppellito non uno, ma tre corpi accanto ad un lungo coltello a serramanico, interrato accanto ai cadaveri secondo il rituale della vecchia malavita calabrese.Il gup Silvana Saguto ha accolto la richiesta della Procura di Palermo. Per la scomparsa del giornalista a Palermo è già in corso un processo in Corte d'Assise contro Totò Riina, ritenuto il mandante dell'omicidio, ma la segnalazione proveniente dalla Calabria, ha reso necessaria l'apertura di un nuovo fascicolo a Palermo.Mauro De Mauro era sparito la sera del 16 settembre del 1970 Mauro De Mauro. Era uscito dalla sua redazione verso le nove, aveva comprato nel solito bar tre etti di caffè macinato, due pacchetti di "Esportazioni" senza filtro e una bottiglia di bourbon. Poi nessuno l'ha visto più. Repubblica.it
Quando il boia non fa notizia
La morte fa notizia. Ne conosciamo tutti i particolari. Ne indaghiamo i fluidi , sangue, sperma, alla ricerca del Dna dell’assassino. Si fruga negli hard disk dei sospettati, alla ricerca di qualche indizio, magari di un’esplicita confessione che il colpevole abbia incautamente lasciato scivolare sulla tastiera. Poi ci sono i testimoni, sempre “super”, ormai, se solo, com’è loro dovere, ricordano qualche particolare interessante per le indagini. Poi c’è lo sfondo sociale, il sindaco che difende la città offesa,il parroco che ricorda i bravi ragazzi, i vicini, sconcertati oppure giustizialisti. E poi il dibattito sulla sicurezza, che manca,e il lassismo, che eccede. Qualche volta c’è persino il plastico della scena del delitto e quasi sempre sedicenti esperti che spiegano tutto senza dire niente.
In televisione, quando non ci sono i politici, è la morte, sempre più spesso a tenere la scena. Ogni giorno un delitto proposto e trattato come memorabile prende il posto di quello precedente.
Dice Roberto Natale, appena eletto presidente della Fnsi : “ Ormai gli omicidi vanno in onda a reti unificate “, come se nel trucidume indiscriminato del fattaccio, nella nera più nera , si attestasse l’ultimo baluardo del giornalismo vero, quello che si attiene ai fatti e risponde alle famose regole di base del modello anglosassone.Insomma pare non ci sia scelta : o politici o cadaveri. La vita comune , con la sua articolata complessità, le sue tensioni, le sue contraddizioni , gli alti e i bassi , le responsabilità, le emozioni , ormai gioca in serie B .
Forte di più di trent’anni di professione sulle spalle , so bene che la morte fa notizia. E so anche che ,in una classifica del notiziabile, da uno a cento, i parenti di un condannato a morte, valgono centodieci. Non c’è “spettacolo” più coinvolgente, evento mediatico più plateale e “vincente” che quello di portare il pubblico a condividere l’angoscioso tormento di un condannato a morte leggendolo negli occhi di un suo congiunto. L’attesa della morte , la prospettiva del patibolo, è ancora più morbosa e mediatica della morte consumata, passata in giudicato.
Eppure, quando abbiamo portato in giro per l’Italia Layla e Hadi, sorella e fratello di Adnan Hassanpur e Hiwa Boutimar , due colleghi iraniani di nemmeno trent’anni, condannati a morte da un Tribunale della Rivoluzione, il meccanismo del Grande Circo non si è messo in moto. Certo, abbiamo raccolto molte e importanti solidarietà , ultima quella di martedì a Montecitorio, e anche l’attenzione di alcuni colleghi ( Rainews24, Tg1,Tg3 ). Ma niente a che vedere con l’attenzione riservata all’ultimo omicidio di Provincia. In Iran sono già arrivate a più di duecento le esecuzioni capitali dalla scorsa estate. Molti condannati avevano compiuto i reati ascritti da minorenni. Adnan e Hiwa ,per di più, sono anche colleghi e in Iran sono duemila le testate giornalistiche chiuse negli ultimi anni dagli Ayatollah. Mi chiedo perché una storia così non attragga i giornalisti e nemmeno il mondo delle associazioni che si definiscono pacifiste, dei collettivi cattolici che invocano ogni giorno la difesa della vita. Cosa c’è di sbagliato in Adnan e Hiwa ? L’amico Giuseppe Giulietti sostiene che “sono iraniani, sono curdi e per di più sono laici, anzi, addirittura socialisti e quindi non rientrano nello schema dello scontro di civiltà”. Sarà questa la spiegazione?
Credo ci sia di più. E di peggio. Prendete il caso di Anna Politkoskaja. Quando è stata assassinata, tutti hanno fatto a gara per commemorarla in ogni forma. Ma oggi che Putin ,il suo avversario storico, oltraggia il concetto stesso di democrazia davanti al mondo,vincendo elezioni nelle quali il suo principale oppositore è stato bastonato in piazza, arrestato e impedito persino a presentare una lista elettorale, avete visto un solo speciale tv? Povera Anna uccisa, ma i colpevoli e i moventi di quell’assassinio stanno ben sepolti accanto a lei. Chi parla della guerra in Cecenia ? Chi racconta al pubblico la situazione nella Federazione Russa ?Silenzio. Dipende solo dal fatto che il nuovo Zar ( o Stalin) tiene in mano il rubinetto del nostro gas?
E Chavez ? Quello che molti vedevano come il nuovo Che ,che chiude televisioni di opposizione e tenta un golpe bianco stravolgendo la Costituzione. Chi spiega alla gente cosa accade in Venezuela e in America Latina? Chiedersi se è più di sinistra lui o tutta quella gente che è scesa in piazza per bloccare il suo golpe populista potrebbe creare imbarazzo a qualcuno. E l’Iraq, dove da mesi i giornalisti occidentali non mettono più piede e sono rimasti solo gli irakeni a morire come mosche per mandarci quelle poche immagini e notizie che ancora approdano da quell’inferno sui nostri media. E l’Afghanistan, dove i giornalisti hanno la stessa sorte, ma ce ne se siamo occupati solo durante il caso Mastrogiacomo? Sono tutte questioni imbarazzanti, che rischiano di risultare scomode un po’ per tutti, al governo e all’opposizione , pacifisti e militaristi. Meglio parlare d’altro. Avanti con il prossimo delitto di provincia.
Eppure, nelle biografie di quelli che ora (da morti) onoriamo come maestri, i Biagi e i Montanelli, spiccano reportages e interviste storiche proprio su scenari come quelli. E l’intervista al condannato a morte era un must di quel giornalismo. Ora che siamo tutti globalizzati, non sfuggiamo all’alternativa fra le memorabili dichiarazioni di Mastella o Dini o le frizioni pubblico -private Berlusconi - Fini e l’ultimo fattaccio di provincia. E lo sappiamo bene, lo dovremmo sapere, che su quelle scene è difficile vincere un Pulitzer o diventare Grandi.
Ma tant’è.
D’altro canto, l’entusiasmo per la campagna italiana sulla Moratoria Universale della Pena di Morte è lasciato tutto ai soli Radicali ( come fosse una robetta un po’ snob , viva i Radicali!) e al ministro D’Alema che ora lavora nell’ombra. Gli altri hanno tutti cose più importanti da fare. Se il mondo è fatto di lupi ed agnelli, l’impressione è che molti, nella nostra categoria, abbiano ormai scelto di fare l’ufficio stampa dei lupi. E questo basso profilo potrebbe avere anche una qualche relazione con la difficoltà a farsi riconoscere i propri diritti, a cominciare dal rinnovo del contratto. Io, che sono all’antica, continuo a pensare, come mi hanno insegnato da piccolo, che i buoni si occupano degli agnelli. Faccio il mio lavoro di pastore , in collina, sperando che non arrivi mai Pasqua. Stefano Marcelli presidente di Information Safety and Freedom
In televisione, quando non ci sono i politici, è la morte, sempre più spesso a tenere la scena. Ogni giorno un delitto proposto e trattato come memorabile prende il posto di quello precedente.
Dice Roberto Natale, appena eletto presidente della Fnsi : “ Ormai gli omicidi vanno in onda a reti unificate “, come se nel trucidume indiscriminato del fattaccio, nella nera più nera , si attestasse l’ultimo baluardo del giornalismo vero, quello che si attiene ai fatti e risponde alle famose regole di base del modello anglosassone.Insomma pare non ci sia scelta : o politici o cadaveri. La vita comune , con la sua articolata complessità, le sue tensioni, le sue contraddizioni , gli alti e i bassi , le responsabilità, le emozioni , ormai gioca in serie B .
Forte di più di trent’anni di professione sulle spalle , so bene che la morte fa notizia. E so anche che ,in una classifica del notiziabile, da uno a cento, i parenti di un condannato a morte, valgono centodieci. Non c’è “spettacolo” più coinvolgente, evento mediatico più plateale e “vincente” che quello di portare il pubblico a condividere l’angoscioso tormento di un condannato a morte leggendolo negli occhi di un suo congiunto. L’attesa della morte , la prospettiva del patibolo, è ancora più morbosa e mediatica della morte consumata, passata in giudicato.
Eppure, quando abbiamo portato in giro per l’Italia Layla e Hadi, sorella e fratello di Adnan Hassanpur e Hiwa Boutimar , due colleghi iraniani di nemmeno trent’anni, condannati a morte da un Tribunale della Rivoluzione, il meccanismo del Grande Circo non si è messo in moto. Certo, abbiamo raccolto molte e importanti solidarietà , ultima quella di martedì a Montecitorio, e anche l’attenzione di alcuni colleghi ( Rainews24, Tg1,Tg3 ). Ma niente a che vedere con l’attenzione riservata all’ultimo omicidio di Provincia. In Iran sono già arrivate a più di duecento le esecuzioni capitali dalla scorsa estate. Molti condannati avevano compiuto i reati ascritti da minorenni. Adnan e Hiwa ,per di più, sono anche colleghi e in Iran sono duemila le testate giornalistiche chiuse negli ultimi anni dagli Ayatollah. Mi chiedo perché una storia così non attragga i giornalisti e nemmeno il mondo delle associazioni che si definiscono pacifiste, dei collettivi cattolici che invocano ogni giorno la difesa della vita. Cosa c’è di sbagliato in Adnan e Hiwa ? L’amico Giuseppe Giulietti sostiene che “sono iraniani, sono curdi e per di più sono laici, anzi, addirittura socialisti e quindi non rientrano nello schema dello scontro di civiltà”. Sarà questa la spiegazione?
Credo ci sia di più. E di peggio. Prendete il caso di Anna Politkoskaja. Quando è stata assassinata, tutti hanno fatto a gara per commemorarla in ogni forma. Ma oggi che Putin ,il suo avversario storico, oltraggia il concetto stesso di democrazia davanti al mondo,vincendo elezioni nelle quali il suo principale oppositore è stato bastonato in piazza, arrestato e impedito persino a presentare una lista elettorale, avete visto un solo speciale tv? Povera Anna uccisa, ma i colpevoli e i moventi di quell’assassinio stanno ben sepolti accanto a lei. Chi parla della guerra in Cecenia ? Chi racconta al pubblico la situazione nella Federazione Russa ?Silenzio. Dipende solo dal fatto che il nuovo Zar ( o Stalin) tiene in mano il rubinetto del nostro gas?
E Chavez ? Quello che molti vedevano come il nuovo Che ,che chiude televisioni di opposizione e tenta un golpe bianco stravolgendo la Costituzione. Chi spiega alla gente cosa accade in Venezuela e in America Latina? Chiedersi se è più di sinistra lui o tutta quella gente che è scesa in piazza per bloccare il suo golpe populista potrebbe creare imbarazzo a qualcuno. E l’Iraq, dove da mesi i giornalisti occidentali non mettono più piede e sono rimasti solo gli irakeni a morire come mosche per mandarci quelle poche immagini e notizie che ancora approdano da quell’inferno sui nostri media. E l’Afghanistan, dove i giornalisti hanno la stessa sorte, ma ce ne se siamo occupati solo durante il caso Mastrogiacomo? Sono tutte questioni imbarazzanti, che rischiano di risultare scomode un po’ per tutti, al governo e all’opposizione , pacifisti e militaristi. Meglio parlare d’altro. Avanti con il prossimo delitto di provincia.
Eppure, nelle biografie di quelli che ora (da morti) onoriamo come maestri, i Biagi e i Montanelli, spiccano reportages e interviste storiche proprio su scenari come quelli. E l’intervista al condannato a morte era un must di quel giornalismo. Ora che siamo tutti globalizzati, non sfuggiamo all’alternativa fra le memorabili dichiarazioni di Mastella o Dini o le frizioni pubblico -private Berlusconi - Fini e l’ultimo fattaccio di provincia. E lo sappiamo bene, lo dovremmo sapere, che su quelle scene è difficile vincere un Pulitzer o diventare Grandi.
Ma tant’è.
D’altro canto, l’entusiasmo per la campagna italiana sulla Moratoria Universale della Pena di Morte è lasciato tutto ai soli Radicali ( come fosse una robetta un po’ snob , viva i Radicali!) e al ministro D’Alema che ora lavora nell’ombra. Gli altri hanno tutti cose più importanti da fare. Se il mondo è fatto di lupi ed agnelli, l’impressione è che molti, nella nostra categoria, abbiano ormai scelto di fare l’ufficio stampa dei lupi. E questo basso profilo potrebbe avere anche una qualche relazione con la difficoltà a farsi riconoscere i propri diritti, a cominciare dal rinnovo del contratto. Io, che sono all’antica, continuo a pensare, come mi hanno insegnato da piccolo, che i buoni si occupano degli agnelli. Faccio il mio lavoro di pastore , in collina, sperando che non arrivi mai Pasqua. Stefano Marcelli presidente di Information Safety and Freedom
Monday, December 03, 2007
Somalia, giornalisti tra due fuochi
Oggi, l'Unione Nazionale dei Giornalisti Somali ha rivolto al nuovo premier, Nur Adde, un appello perché tuteli l'attività dei reporter somali. Dall'inizio dell'anno, sono otto i giornalisti somali uccisi mentre svolgevano il loro lavoro. Un numero che, secondo i dati di Reporter Senza Frontiere, fa della Somalia il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, dopo l'Iraq. E per gli otto che sono morti, decine di altri sono dovuti fuggire a causa delle minacce, mentre emittenti radiofoniche e testate vengono periodicamente chiuse dalle autorità. PeaceReporter pubblica le testimonianze di tre giornalisti somali, contattati durante un reportage del nostro inviato in Kenya e Somalia.
In diretta da Kabul
Kabul - Siamo arrivati quando la luce cominciava ad andare via, intorno alle quattro di pomeriggio (tre ore e mezza dopo il vostro mondo). Ed è il momento più caotico poichè scatta quello che è ormai definito un coprifuoco naturale, cioè spontaneo non imposto per legge ma solo per garantirsi la sicurezza. Siamo rimasti bloccati nel traffico quasi il tempo che ci abbiamo messo per arrivare qui da Dubai. Anche perchè le strade sono invase, come vedete, da mezzi pesantucci. Non fa molto freddo, pensavo peggio. Naturalmente il primo afghano che ho visto è stato Shafique: felicissimo del mio ritorno ma triste, colpa dei problemi che già vi ho raccontato. Adesso sto al sicuro, nel bunker. Un'isola nel dramma di una popolazione sempre più affamata e sempre più impaurita. E' la sesta volta che vengo a Kabul e l'impressione è precisa: ogni volta è peggio, l'atmosfera è sempre più pesante. Dopo sei anni dalla cacciata dei talebani ancora non si può neppure pensare al futuro. Anche perchè, di fatto, i talebani ci sono ancora. Vicinissimi, minacciosi. Quasi allo scoperto. Reportage dall'Afghanistan
Ucciso il rapitore di Daniele Mastrogiacomo
Almeno cinque talebani, tra i quali l'uomo accusato del sequestro del giornalista di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, sono rimasti uccisi in Afghanistan in un bombardamento nel sud del Paese. Lo ha reso noto un comunicato del comando Usa nel paese asiatico. Il bombardamento è avvenuto domenica, nel distretto di Musa Qala, nella provincia di Helmand: le truppe statunitensi hanno localizzato un veicolo nel quale si ritiene viaggiasse l'uomo responsabile del sequestro nel marzo scorso, di Mastrogiacomo, del suo interprete e del suo autista. I militari hanno richiesto l'appoggio aereo e un velivolo ha sferrato un attacco di precisione che ha distrutto il veicolo. Secondo il comunicato, l'uomo era coinvolto in vari attentati contro le truppe e le basi delle truppe statunitensi in Afghanistan, oltre ad aver preso parte al sequestro del giornalista italiano. Mastrogiacomo, 52 anni, fu sequestrato lo scorso 4 marzo in compagnia di un interprete e un autista afghano a Helmand; e fu rimesso in libertà dopo due settimane di prigionia. Il nome non è stato resto noto, ma voci non confermate ufficialmente indicano nel fratello del mullah Dadullah la vittima dell’operazione alleata. Se così fosse, sarebbero morti tutti i talebani rilasciati otto mesi fa dal governo di Kabul in cambio della liberazione del giornalista italiano.
Ilaria Alpi, le indagini proseguono
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato questa mattina il decreto che concede la medaglia d’oro al valore civile alla memoria di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin uccisi a Mogadiscio nel 1994. A darne notizia è il Presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani, che insieme al sindaco di Riccione Daniele Imola, all’onorevole Mariangela Gritta Grainer e all’Associazione Ilaria Alpi di Riccione avevano inoltrato la richiesta per il riconoscimento al Presidente della Repubblica.
Ci sono le prove che Ilaria Alpi è stata assassinata perché aveva scoperto i meccanismi illeciti di un traffico di armi e di dazioni di denaro legate all'affaire della cooperazione in Somalia.Queste, in sintesi, le motivazioni con cui l'avvocato Domenico D'Amati, legale della famiglia Alpi, ha motivato in aula al gip Emanuele Cersosimo la sua opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dalla procura sull'indagine per l'omicidio della giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. "Speriamo ancora che il gip ascolti le nostre richieste - ha detto Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, presente oggi in aula - e che sia fatta luce su quella vicenda".Sono circa 20 i punti esposti al gip, che deciderà se riaprire o meno l'indagine, dall'avvocato D'Amati. "Abbiamo fornito al gip - ha detto il legale della famiglia Alpi - materiale per riaprire l'indagine: ci sono nuove prove, molte delle quali scaturite dal lavoro della Commissione parlamentare d'inchiesta, di cui tuttavia non abbiamo condiviso le conclusioni, per continuare l'inchiesta". Il 10 luglio scorso la procura aveva chiesto l'archiviazione per l' impossibilità di identificare i responsabili degli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin al di fuori di Hashi Omar Hassan, il miliziano somalo condannato a 26 anni di reclusione per il duplice omicidio, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Quella della procura di Roma era l'indagine stralcio sui fatti avvenuti in Somalia avviata dopo la conclusione degli accertamenti culminati nella condanna di Hassan. Nel fascicolo processuale erano confluiti, tra gli altri, gli atti della commissione parlamentare di inchiesta. "Ilaria - ha concluso D'Amati - fu uccisa perché aveva scoperto il traffico di armi e oscure vicende legate alla cooperazione. Lo dicono gli atti della Commissione e, in particolare, l'audizione di alcuni funzionari della digos di Udine. IlariaAlpi.it
Sull'omicidio di Ilaria Alpi non cala il sipario. Il giudice dell'udienza preliminare, Emanuele Cersosimo, ha infatti respinto la richiesta con la quale la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto l'archiviazione del procedimento riguardante la morte della giornalista della Rai uccisa in Somalia. Concessi altri sei mesi di tempo per ulteriori indagini.
Ci sono le prove che Ilaria Alpi è stata assassinata perché aveva scoperto i meccanismi illeciti di un traffico di armi e di dazioni di denaro legate all'affaire della cooperazione in Somalia.Queste, in sintesi, le motivazioni con cui l'avvocato Domenico D'Amati, legale della famiglia Alpi, ha motivato in aula al gip Emanuele Cersosimo la sua opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dalla procura sull'indagine per l'omicidio della giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. "Speriamo ancora che il gip ascolti le nostre richieste - ha detto Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, presente oggi in aula - e che sia fatta luce su quella vicenda".Sono circa 20 i punti esposti al gip, che deciderà se riaprire o meno l'indagine, dall'avvocato D'Amati. "Abbiamo fornito al gip - ha detto il legale della famiglia Alpi - materiale per riaprire l'indagine: ci sono nuove prove, molte delle quali scaturite dal lavoro della Commissione parlamentare d'inchiesta, di cui tuttavia non abbiamo condiviso le conclusioni, per continuare l'inchiesta". Il 10 luglio scorso la procura aveva chiesto l'archiviazione per l' impossibilità di identificare i responsabili degli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin al di fuori di Hashi Omar Hassan, il miliziano somalo condannato a 26 anni di reclusione per il duplice omicidio, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Quella della procura di Roma era l'indagine stralcio sui fatti avvenuti in Somalia avviata dopo la conclusione degli accertamenti culminati nella condanna di Hassan. Nel fascicolo processuale erano confluiti, tra gli altri, gli atti della commissione parlamentare di inchiesta. "Ilaria - ha concluso D'Amati - fu uccisa perché aveva scoperto il traffico di armi e oscure vicende legate alla cooperazione. Lo dicono gli atti della Commissione e, in particolare, l'audizione di alcuni funzionari della digos di Udine. IlariaAlpi.it
Sull'omicidio di Ilaria Alpi non cala il sipario. Il giudice dell'udienza preliminare, Emanuele Cersosimo, ha infatti respinto la richiesta con la quale la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto l'archiviazione del procedimento riguardante la morte della giornalista della Rai uccisa in Somalia. Concessi altri sei mesi di tempo per ulteriori indagini.
Strage inventata, vergognoso
Aveva denunciato il massacro di 11 componenti della sua famiglia, fra cui due sue sorelle e sette bambini, accusando della carneficina milizie sciite: ma era tutto falso. A denunciare il "sordido inganno" e il "comportamento inammissibile" del giornalista iracheno espatriato è stata Reporters sans Frontieres (Rsf), anche il governo di Bagdad ha smentito oggi la strage. L'organizzazione - in un comunicato sul suo sito internet - riferisce che giornalisti della tv privata irachena Al Hurra hanno incontrato oggi membri della famiglia Kawwaz a Baghdad, i quali hanno smentito le asserzioni del giornalista, e denunciato che questi ha così agito "per ottenere denaro dall'estero". Rsf afferma di aver appreso "con collera e senza capire", la falsità di quanto affermato dal caporedattore di Shabakat Akhbar al Iraq, agenzia online di notizie sull'Iraq, il quale aveva anche organizzato, lunedì, una veglia funebre nella capitale giordana Amman, dove attualmente lavora. "Chiaramente siamo sollevati nell'apprendere che i membri della famiglia di Dia al Kawwaz sono sani e salvi - afferma Rsf - ma il comportamento del giornalista è inammissibile. Noi siamo disgustati da questo inganno che non solo è sordido, ma anche pericoloso perchè occulta la realtà vissuta da decine di famiglie di giornalisti che davvero subiscono la violenza dei gruppi armati in Iraq. Negli ultimi anni un gran numero di professionisti dell'informazione hanno dovuto abbandonare tutto, casa e famiglia, per mettersi in salvo all'estero".
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