Thursday, October 25, 2007

Due fotografi assassinati in Colombia

Carlos Alberto Jaramillo, 50 anni, fotografo indipendente che lavorava per alcuni quotidiani locali, e il suo collaboratore Julio César García, 43 anni, sono stati uccisi a Palmira da uomini armati non identificati che hanno sparato contro la loro auto; i due si stavano recando a seguire un evento sportivo. Sale così a quattro il numero degli operatori del settore assassinati quest’anno nel paese. Intanto, Giovanni Alvarez, 43 anni, giornalista della radio comunitaria La Nueva ha lasciato il territorio colombiano dopo aver ricevuto serie minacce di morte. Il giornalista aveva denunciato affari di corruzione che implicavano politici del dipartimento di Atlantico (nord del Paese). La famiglia del giornalista, che si trova ora sotto protezione della polizia, ignora dove si trovi il congiunto. La polizia ha dichiarato che: “Possiamo dire solo che un attentato contro Giovanni Alvarez avrebbe dovuto aver luogo il 28 ottobre. Non abbiamo ancora identificato da dove provengono le minacce, ma l’inchiesta continua”. Il nuovo caso di esilio per un giornalista viene pochi giorni dopo quello di Gonzalo Guillén, corrispondente in Colombia del quotidiano ‘El Nuevo Herald’, costretto a prendere una simile decisione per timore della sua sicurezza e in seguito a una serie impressionante di minacce che gli erano pervenute per telefono dopo che il presidente colombiano Alvaro Uribe lo aveva pubblicamente accusato di aver partecipato alla stesura di un’inchiesta relativa ai supposti legami tra quest’ultimo e il narcotraficante Pablo Escobar.

Ucciso giornalista uzbeko

Alisher Saipov, 26 anni, giornalista uzbeko, è stato ucciso ieri sera nella città di Osh, in Kyrgyzstan, nei pressi del confine con l'Uzbekistan. Lo ha reso noto la polizia locale, che ha confermato l'identità della salma. Saipov, ucciso a colpi d'arma da fuoco, era al tempo stesso giornalista ed editore di un quotidiano in lingua uzbeka noto per le sue posizioni critiche verso il governo del suo paese d'origine. Spesso minacciato in passato, Saipov si era trasferito nel vicino Kyrgyzstan per poter continuare le sue inchieste.

Wednesday, October 24, 2007

L'odio


Ricordo Adnan, il producer del Tg3 a Baghdad, così gentile, mite ucciso dentro casa. Mahdi è invece riuscito a scappare in Svezia, addirittura. Luhay, che sta ancora in Iraq, mi scrive decine di email per chiedermi aiuto. Mi scrive anche Shafique da Kabul. Ricordate? Proprio la mattina della partenza mi ha confidato che i talebani voglio la sua testa perchè un traditore infedele che ha lavorato per i cristiani, cioè per noi. Oggi mi ha telefonato. Sta una settimana in Pakistan per cercare rifugio da qualche parte, anche lontanissima: in Canada o in Australia, mi ha detto, dove pare che accolgano anche gli afghani. Il suo sogno sarebbe di venire in Italia ma non ci riesce (e io non posso aiutarlo: ci sono leggi precise) ed è preoccupatissimo per la famiglia. Shafique, l'uomo che ama i fiori perchè sono colorati in un mondo che ha sempre visto tutto grigio. Lo conosco dal 2001. Da quando ha quei due bimbi piccoli è cambiato, non ha neanche più la voglia di sentire la musica. Un pò mi sento in colpa, per tutti questi amici con cui abbiamo condiviso la vita, in senso letterale, che abbiamo messo nei guai. Semplicemente frequentandoci. C'è troppo odio.

Iraq, ora anche le taglie sui reporter

Reporters sans frontières chiede alle autorità irachene di creare urgentemente un programma di protezione per i professionisti dell'informazione. Un corrispondente della televisione pubblica Al-Irakiya a Diyala è stato recentemente minacciato di morte da un gruppo armato locale e almeno sei professionisti dell'informazione sono stati uccisi in questa provincia a nord-est di Baghdad. "E' fondamentale che le autorità cerchino almeno di garantire l'incolumità e la sicurezza dei giornalisti. Se nulla verrà fatto, un numero crescente di professionisti dei media iracheni saranno costretti a lasciare il Paese o cambiare mestiere. Il pluralismo dell'informazione, conquistato così dolorosamente in Iraq, è di nuovo in pericolo", ha dichiarato l'organizzazione. "La creazione di un programma di protezione, per i giornalisti che scelgono di avvalersi del sostegno delle autorità, potrebbe dissuadere i gruppi armati e limitare il numero dei loro attacchi. Delle ronde di sorveglianza, dei contatti telefonici regolari con i media o la protezione di agenti di scorta rappresentano alcune delle soluzioni in grado di rassicurare i giornalisti iracheni ed aiutarli ad uscire dalla clandestinità alla quale sono spesso condannati", ha precisatoReporters sans frontières. Secondo quanto riferisce l'Associazione irachena per la difesa dei diritti dei giornalisti, il gruppo armato "La Nazione islamica irachena" ha affisso, lo scorso 20 ottobre, sui muri delle moschee e di vari edifici centrali, dei manifesti su Mohammed Ali (con una sua foto), corrispondente della televisione pubblica Al-Irakiya nella provincia di Diyala, descrivendolo come un "infedele" e un "criminale". Il gruppo offre una ricompensa di 10 000 dollari a chi lo ucciderà o permetterà loro di ritrovare il giornalista vivo. Secondo l'organizzazione irachena, Mohammad Ali ha provocato la collera dei militanti della Nazione islamica irachena per aver denunciato a più riprese i loro crimini nei suoi reportage. Almeno sei giornalisti sono stati uccisi nella provincia di Diyala dall'inizio del conflitto nel mese di marzo 2003. La situazione della sicurezza è notevolmente peggiorata, in particolare a causa della presenza di un numero crescente di milizie armate che sono state allontanate dalla capitale dalle forze irachene e americane. Il 20 ottobre 2007, all'alba, un gruppo di persone ha appiccato il fuoco alla redazione del quotidiano Achrakat Al-Sadr, organo di stampa del movimento sadrista, situata nella periferia Al Baladiyat, a est di Baghdad.

Birmania: un fotografo scomparso, quattro giornalisti ancora in prigione

Ko Thu Ya Soe, un fotografo di 30 anni che lavora per l'agenzia tedesca EPA, è scomparso dall'inizio del mese di ottobre 2007. L'ultima volta che è stato visto stava facendo foto in prossimità della pagoda Sule, nell'ex capitale Rangoon. Nessuno, neppure la sua famiglia, ha idea del luogo in cui ora si trovi. Win Ko Ko Latt, reporter del 'Weekly Eleven Journal' arrestato il 27 settembre, Win Saing, fotografo arrestato il 28 agosto, e Nay Linn Aung, reporter del '7-Days Journal', sono ancora detenuti. Stessa sorte per i cinque giornalisti arrestati durante le proteste di settembre: U Thaung Sein, fotoreporter free-lance, Ko Moe Htun, del giornale 'Dhamah-Yate', Ne Min, giornalista indipendente, Monywa Aung-Shin, del giornalel 'Sar-maw-khung', e U Win Tin, del giornale 'Hanthawathi'.

Tuesday, October 23, 2007

Dovrà pagare mille cammelli

Le cause civili esistono anche in Occidente. Ma in Egitto c'è una differenza: il prezzo di una condanna si paga ancora, come una volta, prendendo come valore di riferimento il cammello. Così nel Sinai egiziano, per essere stati offesi attraverso un articolo, il consiglio della tribù al Tarabin «condanna un giornalista a pagare l’equivalente del valore di mille cammelli». Il panarabo al Sharq al Awsat riferisce che i saggi dei Tarabin si sono detti disposti al perdono «A patto che, in segno di scuse, la tribù al Bayyadiya, a cui appartiene il giornalista, esponga 12 stendardi sui tetti delle case di altrettanti notabili». Corriere.it

Monday, October 22, 2007

Due reporter in carcere

Circa 200 persone tra giornalisti e attivisti dei diritti umani sono sfilate ieri per le strade della capitale Niamey, per chiedere la liberazione di Moussa Kaka e Ibrahim Diallo Manzo, due giornalisti arrestati nelle scorse settimane e accusati di essere vicini ai ribelli del Mouvement des Nigeriens pour la Justice, attivo nel nord del Paese. Dall'inizio dell'insurrezione, la scorsa estate, il governo ha decretato lo stato d'emergenza nel nord, chiudendo il territorio alla stampa. Lo scorso mese, un documentarista francese era stato espulso dopo un mese di prigione per essere entrato illegalmente nel territorio. I ribelli chiedono più diritti per le popolazioni del deserto, ma le autorità non riconoscono il Mnj, accusando i suoi membri di essere semplici delinquenti.

Uccisi nel mondo altri tre giornalisti

Somalia. Bashir Nur Gedi, direttore dell'emittente radiofonica somala Shabelle, è stato ucciso da uomini armati non identificati nella capitale Mogadiscio. Gedi è l'ottavo giornalista somalo a perdere la vita quest'anno, facendo della Somalia il posto più pericoloso al mondo, dopo l'Iraq, per i giornalisti. Lo scorso agosto, due colleghi dell'emittente HornAfrik erano stati uccisi a distanza di due giorni l'uno dall'altro, sempre a Mogadiscio. La guerra civile in Somalia, scoppiata nel 1991 e i cui strascichi continuano ancora oggi, ha provocato finora almeno mezzo milione di morti.

Honduras. Carlos Salgado, famoso giornalista satirico della stazione radio Cadena Voces (RCV), è stato ucciso a colpi di arma da fuoco, da due killer a bordo di una camionetta, nella città di Tegucigalpa. Parecchi giornalisti di questa radio, conosciuta per le sue posizioni critiche nei riguardi del governo, avevano ricevuto, nei mesi precedenti, minacce.

Pakistan. Il cameraman Muhammad Arif della catena televisiva privata Ary One World fa parte delle 133 vittime che hanno trovato la morte, il 18 ottobre 2007 a Karachi, nell'attentato suicida che ha colpito il corteo dell’ex-primo ministro del Pakistan, Benazir Bhutto, di ritorno nel Paese dopo otto anni di esilio. Secondo l’Associazione della stampa pachistana, Muhammad Arif era stato trasferito nell'ufficio londinese della catena televisva, ma aveva ritardato la sua partenza proprio per coprire il ritorno di Benazir Bhutto.

Thursday, October 18, 2007

Iran, arrestato giornalista dissidente

Il 14 ottobre, Emadeddin Baghi è stato arrestato dopo essere stato convocato per comunicazioni sulle nuove accuse nei suoi confronti. Secondo il suo avvocato, la prima sezione del tribunale rivoluzionario di Teheran, lo ha accusato di "propaganda contro il regime" e "pubblicazione di documenti governativi segreti ottenuto con l'aiuto di prigionieri reclusi per aver attentato alla sicurezza degli uffici speciali". Fervente militante contro la pena di morte in Iran, e vincitore nel 2005 del premio per i Diritti dell'Uomo della Repubblica francese, Emededdin Baghi era stato condannato nel 2000 a tre anni di carcere per "attentato alla sicurezza nazionale". Il 9 novembre 2004, era stato condannato a un anno di carcere duro per aver pubblicato un libro che accusava le autorità iraniane dell'assassinio di intellettuali e giornalisti nel 1998. Il giornale in cui lavorava, 'Jomhouriat', era stato proibito nel 2003. Il 31 luglio 2007, era stato condannato a tre anni di prigione con l'accusa di "azioni contro la sicurezza nazionale" e "pubblicità in favore degli oppositori di regime".

E l'Eritrea precipita

L'Eritrea ce l'ha fatta. Dopo una discesa costante negli anni, il piccolo Paese africano è riuscito, per la prima volta, a occupare l'ultimo posto (il 169esimo) nell'indice sulla libertà di stampa nel mondo compilato da Reporters Senza Frontiere, superando un mostro sacro come la Corea del Nord. Ma se ad Asmara i giornalisti piangono, in molti dei Paesi ritenuti più “civili” non ridono: tra gli stati del G8, solo due (Canada e Germania) sono nei primi venti posti. L'Italia ferma la sua discesa ma si attesta al 35esimo posto, gli Usa stagnano (48) mentre Russia (144) e Cina (163) si confermano le pecore nere tra le potenze mondiali. Nel solo 2007, in tutto il mondo 77 giornalisti sono stati uccisi e 128 imprigionati, mentre aumenta il giro di vite nei confronti dei cyber-dissidenti, 64 dei quali sono finiti in galera.Ancora una volta, il nord Europa si conferma il paradiso della stampa: il primo posto se lo contendono Islanda e Norvegia, e la Finlandia è quinta assieme alla Svezia. L'Olanda, l'anno scorso prima, scivola al 12esimo posto per aver tenuto in custodia due giornalisti del Telegraaf che si erano rifiutati di rivelare le loro fonti alle autorità giudiziarie. I primi venti posti del ranking sarebbero un affare tutto europeo se non fosse per Nuova Zelanda (15), Canada (18) e Trinidad e Tobago (19). Questi ultimi guidano una rappresentanza di stati centroamericani al vertice, assieme a Costarica (21) e Giamaica (27). I primi Paesi africani sono le Mauritius e la Namibia (25esimo posto ex-aequo), mentre ad aggiudicarsi la leadership asiatica è Taiwan (32).Se non altro, i Paesi del G8 riescono a frenare la pesante caduta degli ultimi anni. Oltre al già citato Canada, solo la Germania (20esima) figura tra i primi venti. La Francia, in leggera risalita, si attesta al 31esimo posto, l'Italia è poco dientro, il Giappone recupera 14 posti ed è 37esimo. Nessun progresso di rilievo per gli Usa, che pagano la detenzione a Guantanamo, dal 2002, del cameraman sudanese di al-Jazeera Sami al-Haj, così come per la Russia, desolatamente in fondo alla classifica, visti gli scarsi miglioramenti registrati dopo l'assassinio di Anna Politkovskaja. Buone notizie arrivano da alcuni stati non europei: il Togo e la Mauritania entrano nei primi 50 posti, con quest'ultima che, negli ultimi due anni, ha recuperato ben 88 posizioni, dopo la caduta del presidente Ould Taya. Il Nepal, seppur ancora al 137esimo posto, recupera ben 20 posizioni grazie alla fine della guerra e al conseguente allentamento delle restrizioni nei confronti della stampa. Per il motivo opposto, lo Sri Lanka si piazza al 156esimo posto e i Territori Palestinesi due posizioni più in giù, immediatamente seguiti dalla Somalia, che nel 2007 ha visto la morte di ben sette giornalisti e la fuga di un'altra decina a séguito di minacce. Assassini di giornalisti e (new entry) persecuzioni nei confronti dei bloggers costano cari alla Turchia (101esima) e all'Egitto, precipitato in 146esima posizione. In fondo alla classifica, poco cambia: l'Iraq è ancora in discesa (157esimo posto), mentre le ultime sette posizioni sono occupate dai soliti noti: Cina (in cui le prossime olimpiadi non sembrano aver portato un gran beneficio) Myanmar, Cuba, Iran, Turkmenistan, Corea del Nord e, come detto, Eritrea che, grazie alla morte in detenzione di quattro giornalisti e la completa cancellazione della stampa indipendente, strappa la palma che Pyongyang deteneva da anni. PeaceReporter

Indimenticabile Frajese

Wednesday, October 17, 2007

Ucciso un altro reporter in Iraq

Salih Saif Aldin, giornalista iracheno di 32 anni, corrispondente dal 2004 del Washington Post, è stato ucciso mentre stava lavorando nel quartiere di Sadiyah a Baghdad. Lo riferisce il sito internet del quotidiano statunitense, precisando che i dettagli della morte del giornalista sono ancora poco chiari. “La morte di Salih ci ricorda il ruolo centrale che i giornalisti iracheni hanno avuto nella copertura della guerra…” si legge sul Washington Post. E' il 46.mo giornalista ucciso in Iraq quest'anno (dall'inizio della guerra sono 238).

Paparazzi e divi aggressivi


Rino Barillari, il fotografo del Messaggero , il re della “Dolce vita” che nella sua carriera ha immortalato tanti vip, con Bruce Willis non è riuscito a mettere a segno il colpo. Il tentativo di “pizzicarlo” con la compagna, ieri sera al ristorante “I due ladroni”, è costato al “re dei paparazzi” un ricovero in ospedale. Quando, infatti i due bodyguard dell'attore americano si sono accorti della presenza del fotografo, lo hanno raggiunto e con strattonate gli hanno strappato la macchina fotografica dalle mani. Intanto, Bruce Willis è rimasto tranquillamente seduto al tavolo, in piazza della Nicosia, a scambiarsi effusioni con la sua dolce fiamma. Ma Rino Barillari, da professionista degli scatti qual è, non ha mollato la presa. Nonostante nella colluttazione avesse riportato alcune ferite, guaribili in tre giorni, ha seguito la comitiva della star hollywoodiana nel locale “Il Blum”. Il fotografo ha chiamato i carabinieri del nucleo radiomobile di Roma e insieme sono entrati nella discoteca. Barillari ha così segnalato ai militari le guardie del corpo responsabili dell'aggressione. «La guerra è guerra», ha commentato soddisfatto Barillari. I bodyguard, in tutta risposta, hanno detto sereni: «No problem, pagheremo».Stamattina, Rino Barillari, con il suo legale Roberto Ruggiero, ha sporto denuncia ai carabinieri e probabilmente la polizia di frontiera cercherà di impedire l'espatrio degli autori dell'aggressione. «L'ho fatto non tanto per me quanto per i miei colleghi- ha dichiarato Barillari - che ogni sera subiscono queste aggressioni. I vip e le star devono imparare l'educazione. Siamo in un Paese dove vigono alcune leggi e non si può venire in Italia ad aggredire indisturbati e a prendersela con i fotografi e giornalisti».

Tuesday, October 16, 2007

Come aggirare la censura a Cuba


«Generación Y è un blog ispirato a gente come me, nata a Cuba negli anni 70 e 80 e segnata dai giocattoli russi, le fughe illegali e la frustrazione» scrive Yoani Sánchez in Desdecuba, prima di tuffarsi in una accorata critica di Fidel Castro e del suo regime che «non capiscono nulla dei nostri problemi». In Havanasciti Tension Lia si affida alle immagini, più che alle parole, per denunciare il profondo degrado dei tesori architettonici dell’Avana, un tempo il gioiello dei Carabi. Yoani e Tension Lia sono la punta di diamante di un fenomeno in crescita a Cuba: i blogger indipendenti che si sono scavati una breccia nel muro censorio del regime castrista, riuscendo a trasmettere al mondo una versione quotidiana realista e incensurata della vita sotto Fidel. Un’impresa tutt’altro che facile nell’isola votata da Reporters sans Frontières «uno dei 13 Paesi nemici di Internet» - insieme, tra l’altro, a Cina, Arabia Saudita, Iran e Siria - , perché in vario modo tiranneggiano gli utenti Internet e reprimono la libertà di espressione online. Per aggirare il Grande Fratello, la Sanchez si camuffa da turista, finge un accento tedesco e si infila nella hall degli sfarzosi alberghi della capitale. Poi si siede ai tavoli riservati agli stranieri e sborsa sei dollari all’ora – due settimane di stipendio medio per un cubano – per una connessione Internet non controllata che le consente di accedere al suo sito, rigorosamente ospitato da server esterni. Alessandra Farkas

Monday, October 15, 2007

La pace è possibile



Un soldato americano in Iraq. Mandate le vostre foto dedicate alla pace sul nuovo blog di comunità. Una maniera di essere uniti per un progetto comune, essenziale.

Antonio Russo, sette anni fa



Antonio Russo, trovato morto vicino a un passo di montagna caucasico, potrebbe avere scoperto troppo sulle atrocità in Cecenia. Abbandonato sul ciglio della strada, in un passo tra i campi alle prime luci dell'alba, il contorto, congelato cadavere aveva qualcosa di strano. Antonio Russo era stato ucciso, e i suoi assassini si erano assicurati di non lasciare segni sul suo corpo. Sull'altro lato del Passo Gombori, nella Repubblica della Georgia, gli amici lo stavano aspettando al villaggio di Mirzaani. Russo doveva unirsi alle celebrazioni per l'anniversario di Nico Pirosmani, un artista locale del diciannovesimo secolo. Non sapevano che un grande, pesante oggetto veniva schiacciato sul petto di Russo, finché la rottura di quattro costole e l'emorragia interna non causarono la sua morte. Non sapevano che il suo telefono satellitare, la telecamera digitale, il computer portatile e le videocassette erano sparite. Un giornalista italiano che aveva speso la vita scoprendo segreti ne stava lasciando dietro di sé un altro. Chi lo ha ucciso, e perché? Dalla strada 30 miglia a nord-est della capitale georgiana, Tblisi, c'è un filo di fatti e di sospetti che qualcuno afferma portino al Cremlino e alla aggressione russa alla Cecenia. Gli amici di Russo credono che lui sia stato assassinato dai servizi segreti russi dopo avere scoperto l'uso di armi non convenzionali contro i bambini. 16 ottobre 2000
"Le infamie hanno bisogno del buio, voi giornalisti potete portare la luce della verità": la madre di Antonio Russo, ucciso in Cecenia dopo aver denunciato, come Anna Politkovskaya, le atrocità di Mosca.

Egitto, stampa di regime

“E’ stata una decisione sofferta ma giusta. Dovevamo esprimere la nostra solidarieta’ con i colleghi arrestati. Pensi che in Egitto, ancora oggi, un giornalista puo’ finire in carcere sulla base di 18 articoli del codice penale”. Mahmud Bakri e’ il vice-direttore di “Al-Osbo’a”, uno dei 22 giornali indipendenti che domenica 7 ottobre hanno deciso, tutti insieme, di non uscire per protesta. “Liberta’ per la stampa e per i giornalisti”: listati a lutto per un giorno anche i loro siti Internet. Una decisione senza precedenti, e certamente molto coraggiosa, in un Paese dove, per aver scritto che “il 90 per cento dei giudici egiziani di primo grado non ha le competenze giuridiche necessarie”, 3 giornalisti sono stati recentemente condannati a due anni di galera per “oltraggio alla giustizia”. O, come 4 direttori di giornali, condannati ad un anno di lavori forzati per aver definito “dittatoriale” il Partito del presidente egiziano Hosni Mubarak, al potere da oltre un quarto di secolo. “Era ora che scioperassimo”, dice Mustafa Obeid, un giovane redattore di ‘Gomhurriya’, “ma temo che un solo giorno non basti per far passare il messaggio”. “Il problema”, aggiungono altri, “e’ che agli egiziani manca la coscienza dei propri diritti. Anche perche’ noi giornalisti a stento riusciamo a dar conto del crescente malcontento sociale del Paese”.
Un malcontento che solo sporadicamente emerge su stampa e TV di regime, e solo quando a scioperare sono i simboli stessi del settore produttivo e industriale dell’Egitto. Marc Innaro

Saturday, October 13, 2007

I reporter di guerra e la paura

La guerra è come la morte: ammutolisce tutti quelli che la conoscono. Poi ci sono quelli che la raccontano e che muti non ci possono stare: i giornalisti. Per natura, per mestiere e per fortuna di chi li sta ad ascoltare da casa. Tra di loro ce ne sono alcuni che, nonostante gli anni passati al fronte e le parole spese per gli orrori visti, continuano a commuoversi per la cattiveria umana. Pino Scaccia, inviato storico del Tg1 è uno di loro: il suo blog è seguito da migliaia di persone che ammirano la sua umanità oltre che la professionalità. Gli abbiamo chiesto che cosa è il giornalismo di guerra, come lavora un inviato televisivo, quanto è disposto a rischiare per la sua professione. Ecco cosa ci ha risposto.

Sei parte in causa, ma come giudichi l'informazione mondiale sulla guerra in Iraq? E quella italiana?Domanda difficile. Non è facile fare informazione in guerra. Perchè non esiste la verità assoluta e dunque una buona informazione è quella di dar conto, complessivamente, di entrambe le parti in conflitto. È chiaro che ciò è stato possibile dalla somma dei vari interventi: quelli di parte occidentale e quelli di parte araba. Non per spirito nazionalistico ma credo che tutto sommato, considerando la complessità della questione, la stampa italiana non si sia comportata male.

Fare l'inviato di guerra è una scelta, una missione o una sfida?Intanto, per me l'inviato di guerra non esiste. È solo un'etichetta. Esiste l’inviato che va dove lo porta la notizia. In tanti anni da inviato ho seguito vari eventi, certamente anche le guerre che sono un evento speciale. Non si va in guerra con spirito particolare se non con la voglia, come sempre, di raccontare. Certo, bisogna prendere qualche accortezza in più ma non la considero una missione. Semplicemente un mestiere, magari un pò speciale. Personalmente mi sento un privilegiato: perché sono io il tramite tra la gente e l'evento, che racconto con i miei occhi e la mia anima.

Questa guerra a tuo avviso è più sporca delle altre? O sono tutte uguali? Tutte le guerre sono sporche. E neppure ci sono buoni e cattivi. Questa guerra ci sembra più sporca perché la conosciamo di più, la vediamo passo passo, dal di dentro.

Hai paura? E se ne hai, hai paura della tua paura? Guai se non avessi paura. È la paura a salvarti la vita. La paura ti insegna la prudenza, ti addestra nelle scelte di luoghi e persone. Il problema è quando non hai paura e ti senti immortale. Tutti noi abbiamo avuto la prima grande paura, quella decisiva. Ma non tutti purtroppo hanno avuto la possibilità di ricordarla e di farne tesoro.

Quanto dolore provi a fare questo mestiere e quanto sei disposto a rischiare per il tuo lavoro?Il dolore c'è. E anche una fatica sovrumana talvolta. Devi provare emozione, per poterla trasmettere. Il dolore c'è ma deve restare dentro. Sono disposto a rischiare tutto meno che la vita. Ogni scelta è determinata dalla consapevolezza di restare vivo. Ma non ci sono regole. Spesso si rischia di più e non ci si rende conto. Scelte istintive. Forse, per esempio, ho sbagliato ad andare a Najaf quel giorno.

Perché secondo te gli estremisti si sono accaniti contro i giornalisti?Perché quando è attaccato un giornalista è tutto enfatizzato. Chi vuole il terrore sa che colpendo i giornalisti hanno una grande cassa di risonanza.

I tuoi ultimi post, sul tuo blog, sono strazianti. Non ti viene un po' di rabbia pensando a chi, come noi, sta comodamente seduto sulla poltrona di casa mentre in Iraq succede quello che succede?Rabbia assolutamente no, perché? La scelta è mia. Sinceramente neppure invidia perché credo di essere io il fortunato. Mi fa rabbia soltanto quando qualcuno che sta comodamente seduto in poltrona pretende di dare lezioni, di capirne più di noi che conosciamo posti, persone e situazioni. Questo non lo accetto. Liberonews 18 settembre 2004

Thursday, October 11, 2007

Somalia, attaccata una radio

Soldati dell'esercito governativo somalo hanno fatto irruzione stamane nella sede della stazione radiofonica Simba Radio a Mogadiscio, arrestando il caporedattore Abdullah Ali Farak e un giornalista. A motivare dell'attacco un'intervista, trasmessa ieri sera, al comandante dei ribelli islamici sceicco Mukhtar Robow, che ha dichiarato di essere l'organizzatore di un attacco suicida contro una base dell'esercito etiope in Somalia, vicino all'albergo che ospitava il Primo ministro Ali Mohamed Gedi. Lo sceicco, conosciuto anche con il nome di Abu Mansur dopo la sua militanza nei Talebani afghani all'inizio degli anni 2000, è stato a capo di numerosi gruppi di miliziani nell'ultimo decennio.

Wednesday, October 10, 2007

La propaganda di regime


La macchina propagandistica della dittatura militare birmana guidata dal generale Than Shwe sta lavorando a pieno regime.Alle televisioni di Stato (Mrtv e Mwt), le conduttrici dei telegiornali – vestite con divise verde chiaro e impettite in una ridicola posa marziale – commentano le immagini delle manifestazioni popolari organizzate dalle autorità in diverse cittadine del paese: centinaia di persone, dall’aria tutt’altro che allegra, che marciano in file ordinate portando grandi bandiere birmane e innalzando ritmicamente cartelli con su scritto ‘Per la pace’, ‘Contro la Violenza’, ‘Contro gli elementi distruttivi interni’, come il regime usa definire i dissidenti democratici. Ma è leggendo il giornale governativo ‘The New Light of Myanmar’ che si ha un genuino, e inquietante, assaggio della propaganda di regime. Il numero del 2 ottobre, datato ‘Sesto mese dell’anno 1369’ – in riferimento alla fondazione del primo impero birmano di Mandalay – ha una quarta di copertina in cui, a caratteri cubitali, sono elencati i ‘Desideri del Popolo’: ‘Vogliamo la stabilità, vogliamo la pace, ci opponiamo al disordine e alla violenza’. E sotto un avvertimento: ‘Attenzione, non credete alle menzogne mandate in onda dagli assassini dell’etere: Bbc, Voice of America, e Radio Free America. Questi sabotatori vogliono distruggere la nazione’. Enrico Piovesana

Saturday, October 06, 2007

Tutto il mondo piange Anna Politkovskaja


«Ho paura? », si chiedeva Anna Politkovskaja nel suo ultimo libro. Colei che i suoi amici e colleghi di 'Novaïa Gazeta' soprannominavano la «coscienza della Russia» si interrogava continuamente sul suo mestiere di giornalista e sul lavoro che svolgeva in Cecenia. Scegliendo di non tradire mai il suo impegno, indipendentemente dai rischi che correva, Anna Politkovskaja aveva smesso di appartenere a se stessa. Era diventata una figura morale, collettiva. Questa donna, madre di due figli, baluardo dei "senza voce" e simbolo della loro sofferenza, era tuttavia perfettamente cosciente della propria vulnerabilità. Le minacce che le erano rivolte, gli attentati ai quali era riuscita a sfuggire le ricordavano sempre a che punto la sua missione era delicata e pericolosa. Anna Politkovskaja aveva capito che la paura è una specie di cancrena, il sintomo delle società malate e non ha mai smesso di lottare per sconfiggerla. Bisogna dunque ricordarla come una donna coraggiosa e libera. Una giornalista che non ha esitato a denunciare gli abusi e i soprusi di un potere che non garantisce la libertà di espressione e che lascia impuniti gli assassini dei professionisti dell'informazione che non hanno voluto sposare l'autocensura e la menzogna. La scomparsa di Anna può scuotere le coscienze e far progredire la causa della democrazia? E' troppo presto per affermarlo ma, a un anno dalla sua morte, non la dimentichiamo. E non siamo soli nel suo ricordo perché a Roma, a Parigi, a Mosca e in altre capitali del mondo numerosi sono coloro che le rendono oggi omaggio.

La Russia di Putin: 43 giornalisti uccisi

“Sono 43 i giornalisti uccisi nella Federazione Russa dal 31 dicembre 1999, data dell’ascesa di Vladimir Putin alla Presidenza. Il primo di quella lista era un cittadino italiano, il collega Antonio Russo , che denunciava il genocidio del popolo ceceno così come Anna Politkovskaja , colpita a morte sulla porta della propria abitazione il 7 ottobre dello scorso anno. Per nessuna di queste vittime di un regime che somiglia sempre di più a quello stalinista , esiste un colpevole condannato. Così come per le centinaia di aggressioni , pestaggi, minacce e censure attuate da personaggi dell’Apparato Statale ai danni di giornalisti e di testate troppo indipendenti.A un anno dalla morte di Anna , fioriscono le iniziative in memoria della collega. Tutte meritevoli , dalle interviste alla figlia Vera , che lancia un sommesso appello all’Ue, alla dedica una piazza alla giornalista, alla Marcia per la Pace , allo spettacolo teatrale di Ottavia Piccolo. Ma che senso ha ricordare Anna e dimenticare tutto quanto ha scritto e detto con quella sua ineffabile timida fermezza e che le costata la vita ? “ Io vivo la vita e scrivo ciò che vedo “, scriveva . E le hanno tolto la vita e la possibilità di scrivere. “ Soffoca ogni forma di libertà come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione” , scriveva di Vladimir Putin . E a nome dei russi, diceva :” Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà quanto voi “ . Infine lanciava un’accusa rivolta a tutti noi : “ Gli occidentali hanno una tale passione per Putin , lo amano a tal punto da temere di pronunciarsi contro di lui “. Pochi suoi concittadini hanno conosciuto le sue denunce. Come spiegò Putin, all’indomani dell’ omicidio, scriveva su una piccola rivista e ai grandi media non sono mai arrivate. Non bastano le celebrazioni , bisogna alzare la voce a un tono così alto che possa arrivare fino a Mosca. Ma l’Italia non ha nemmeno il coraggio di chiedere di sapere chi ha ucciso e perché un proprio cittadino. Attenzione : l’ipocrisia sarebbe il peggiore affronto ad Anna , Antonio e gli altri 41 martiri della libertà di stampa nell’era Putin. Information Safety and Freedom a un anno dalla morte di Anna Politkovaskaja e sette da quella di Antonio Russo.

Thursday, October 04, 2007

Gaza, ferito fotografo

Un fotografo dell’agenzia Reuters, Mohammed Jadallah, 23 anni, è stato ferito ieri alla gamba destra da colpi di arma da fuoco esplosi dall'esercito israeliano nei pressi del punto di passaggio di Erez (tra Israele e la striscia di Gaza). Il fotografo stava documentando il ritorno dei detenuti palestinesi liberati.

Il ritorno di Kenji



E' tornata in Giappone la salma di Kenji Nagai, il fotoreporter ucciso in Birmania.

Monday, October 01, 2007

Come calcolare i rischi


Kabul. Oggi ho intervistato due capi talebani. Ne è nata una discussione sul mestiere di reporter che può interessare qui. Barba mi ha chiesto: "Mi intriga un pò cercare di immaginare e capire il metro con cui riesci a valutare il rischio. L'esperienza può essere una componente ma non può essere solo intuizione (pur se dettata dall'esperienza) Sarebbe come giocare a testa e croce o alla roulette russa".

E invece sì. Quando hai esperienza, cioè un passato alle spalle dove magari hai commesso anche errori (per fortuna non fatali) l'intuizione è decisiva.
Partiamo da un presupposto. La nostra vita, in certi posti, la mettiamo in mano ai nostri stringers. Dunque intanto è importantissimo questo rapporto. Con Shafique a Kabul lavoro dal 2001, per arrivare "oltre" bisogna conoscersi bene. Come con Mahdi a Baghdad che mi ha salvato la vita. Con loro il rischio di essere venduto, che è il più alto, per esempio non c'è. Conosco le famiglie, ci vogliamo bene. Te ne potrei raccontare tante. A Mogadiscio per esempio Mohammud non si fidava neppure di me, cambiava sempre percorso e appuntamenti, perchè - diceva - io ti sono fedele ma ho tre figli e...se devo scegliere fra te e loro chi scelgo? In genere si fa un passo per volta. A Medellin, in Colombia, ho cambiato quattro autisti prima di azzardarmi a chiedere di portarmi nel covo di Pablo Escobar.
Partendo da questo, si arriva ai contatti. Devi credere nei contatti, in quelle che noi chiamiamo fonti. Non solo per rischiare la vita, ma anche nel dare certe notizie esclusive. Nel caso, famoso, di Farouk io mi sono fidato di Graziano Mesina (e lui di me). Ci siamo annusati per settimane prima di fidarci.
Mastrogiacomo a Kandahar, e anche i due funzionari del Sismi a Herat, hanno evidentemente sbagliato contatti. Non ci giriamo intorno: sono stati venduti.
C'è un'ultima componente. Devi stare nel "tuo" territorio, cioè quello del tuo stringer. Mahdi non l'ho portato a Najaf. Shafique a Kabul è copertissimo: è un tagiko in una città tagika, ha combattuto per anni i russi dietro il comandante Massoud da mujaeddin, a Kabul conta, l'ho visto: mi porta da tutti, a qualsiasi livello, mi fa entrare in Afghanistan senza visto, abbraccia ministri e capi della polizia. A Kabul sto nelle sue mani e mi fido ciecamente. Non andrei mai con lui in terra pashtun, men che meno a Kandahar.
Credo di essermi spiegato. Caro Barba, sembra incredibile ma come al solito è sempre la testa al centro di tutto. A parte il culo.

Non spegnete la luce

Venti anni fa i morti furono almeno tremila. Ma nessuno li ha visti. Se il primo dovere di un regime totalitario è reprimere le voci dissenzienti, il secondo è spegnere la luce dell’informazione, occultare i crimini, la repressione, le stragi. Ma anche la Birmania, oggi, suo malgrado, è nell’era internet. Birmania

Iraq, già quarantacinque giornalisti morti

Il giornalista, Abdel Khaleq Nasser, del giornale 'Sada al-Mussel', è rimasto ucciso per l'esplosione di un proiettile di mortaio davanti casa, nel quartiere Bab Abiyad di Baghdad. Con l'uccisione di Nasser sale ad almeno 237 (secondo una stima effettuata dall'Iraqi Journalist Union) il numero degli operatori dei media uccisi in Iraq dall'inizio della guerra (marzo 2003).

Slovenia, petizione contro la censura

La Slovenia è stata spesso descritta come una storia di successo tra le transizioni dell'Est. Ora i suoi giornalisti si ribellano e fanno sentire forte la loro voce di protesta per lo stato preoccupante della libertà di stampa nel paese governato da Janez Janša. 438 firme autorevoli da tutti i media del paese e di tutte le età confermano che in Slovenia la libertà di espressione è sotto torchio. Una lettera forte, volutamente semplice e chiara, da cui trapela anche la preoccupazione per il complice silenzio di un'Unione Europea indifferente a temi che un tempo erano parte della sua identità e che dovrebbero esserlo ancora. Osservatorio Balcani

Attentato al direttore di Shabelle

Due persone armate, non meglio identificate, avrebbero cercato di uccidere il giornalista Jafaar Mohammed ‘Kunai’, direttore responsabile dell’emittente somala Radio Shabelle, obiettivo di un attacco nei giorni scorsi da parte delle truppe governative e costretta a interrompere le trasmissioni. Il tentato omicidio, secondo un comunicato diffuso da Reporters Sans Frontieres, avvenuto il 24 settembre nel centro di Mogadiscio, sarebbe andato a vuoto, e gli assassini sarebbero riusciti a scappare. “Presi nel fuoco incrociato degli assassini mirati e degli arresti arbitrari, i giornalisti somali hanno raggiunto condizioni critiche, che mettono a rischio l’esistenza stessa di un’informazione indipendente nel paese” recita il documento, denunciando il clima di persecuzione a cui sono sottoposti, oltre che a Mogadiscio anche nel Puntland e nel Somaliland, regioni semiautonome del nord, e nell’Hiran, nel sud, molti operatori della stampa indipendente. Tre di essi sarebbero stati arrestati dopo aver scattato fotografie dei combattimenti in corso tra l’esercito del Somaliland e milizie dissidenti. Contro la chiusura di Radio Shabelle, e la persecuzione della stampa libera, l’Ue ha presentato la scorsa settimana una protesta indirizzata al governo di transizione somalo, mentre denuncie analoghe sono state espresse da alti funzionari Onu. Le autorità di Mogadiscio hanno affermato che sono in corso indagini sull’accaduto.