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Professione reporter, il mestiere di raccontare.

Monday, April 16, 2007

Anna & Antonio





Un blog dedicato ad Antonio Russo e Anna Politkovskaya, vittime dell'inferno Cecenia.
Pubblicato da Pino Scaccia a 1:28 AM
Etichette: Cecenia

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Se non diremo cose che a qualcuno spiaceranno, non diremo mai la verità

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“The world is a better place without fear" ... Il mondo sarebbe migliore senza paura
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Negli ultimi cinque anni: 449
In Iraq dall'inizio della guerra: 242

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(Cina 80, Cuba 23)
Sotto sequestro: 14

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nel mondo

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Quando cade uno di noi

Quando muore uno di noi. Non importa la nazionalita’ e neppure il ruolo: puo’ essere un fotografo o un fonico, un operatore: uno di noi. E allora ti accorgi che stai in mezzo a una guerra vera, dove sparano sul serio e se non capita a te ma a qualcun altro e’ solo casualita’, destino. Inutili i giubbotti antiproiettile, le scorte, la prudenza, tutto il resto. Se ti arrivano granate o colpi di cannone o killer assetati di vendetta o guerrieri disperati e impauriti c’e’ poco da difendersi. Neppure il buonsenso basta perche’ la storia e’ piena di passi molto riflessivi e poi l’incursione improvvisa, l’attacco a sorpresa e tu ti ritrovi li’, a un passo dalla fine. Chiunque di noi si e’ trovato spesso in difficolta’. Ma nessuno di noi e’ un eroe ne’ ha la vocazione di diventarlo. Si va in guerra, sembra banale, come si va in qualsiasi altra parte del mondo a “raccontare”: puo’ essere una festa e puo’ essere l’inferno. La cosa strana e’ che continuiamo a sentirci dei privilegiati, solo per il fatto di stare in mezzo all’evento, occhi e anima di tutti gli altri. Molti purtroppo pagano la grande curiosita’, questa voglia di capire.

Marco Luchetta

Marco Luchetta
Bosnia, 28 gennaio 1994

Ilaria Alpi

Ilaria Alpi
Somalia, 20 marzo 1994

Marcello Palmisano

Marcello Palmisano
Somalia, 9 febbraio 1995

Antonio Russo

Antonio Russo
Cecenia, 16 ottobre 2000

Maria Grazia Cutuli

Maria Grazia Cutuli
Afghanistan, 19 novembre 2001

Raffaele Ciriello

Raffaele Ciriello
Palestina, 13 marzo 2002

Enzo Baldoni

Enzo Baldoni
Iraq, 26 agosto 2004

Parole

"Lasciamo che siano i fatti a parlare. Il resto sono chiacchiere e politica, tutte cose da cui voglio tenermi lontano”. Enzo Baldoni

"Dietro di me non c'è altro che la mia coscienza, nei miei programmi futuri soltanto la tomba. Che vorrei, è ovvio, più lontana e con una lapide: 'Scrisse quello che poteva, mai quello che non voleva. Amen". Enzo Biagi

"Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri". Joseph Pulitzer (1847-1911)

"Sono come un colombo che si guarda sempre intorno, incuriosito e impaurito. Chissà quali ingiustizie mi troverò davanti. Ma nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Perchè qui non si fa male ai colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti come me, ma come me liberi." Hrant Dink, il giorno prima di essere ucciso.

"Ci si mette in viaggio a causa di una tragedia, o perché travolti da un’insana passione. Ma andare altrove serve a scoprire gli altri. E se stessi. Ci si mette in cammino per fuggire dalla fame, dalla peste, dalla guerra, per cercare la sicurezza altrove”.
" La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono invece ad essere dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori... In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta..."
Ryszard Kapuscinski

"Non escludo che un giorno il mio caporedattore, che mi ha incaricata di coprire questa guerra, non sappia più cosa farsene di me, come di un vecchio articolo non pubblicato al momento giusto che viene buttato nel cestino".
Anna Politkovskaya


Il muro della memoria

C’è un muro trasparente ad Arlington, Virginia. Sta in cima a Freedom Park e domina Washington.E’ alto sette metri. E non finisce mai: ogni anno, ai primi di maggio, aggiungono un pezzo. Ogni pannello ha un nome, un luogo, una data. E’ nel giardino del Newseum, il museo della stampa. E’ il muro del Journalists Memorial, il monumento ai giornalisti caduti. Il primo della lista: James M. Lingan, 62 anni, americano, ucciso a Baltimora nel 1812. Lavorava al Federalist , dava fastidio ai politici. Non è una lista completa, quella di Arlington, ma è "democratica". Nel senso che ci sono nomi sconosciuti e storici come Robert Capa, 1954. Il fotoreporter forse più famoso del ’900, cinque guerre in 18 anni: sue le uniche, vere immagini dello sbarco in Normandia. A 41 anni andò in Giappone per una mostra, Life lo chiamò: "Già che ci sei, coprici il fronte in Indocina". Saltò su una mina vicino ad Hanoi. Giornalisti massacrati in guerra. Fatti sparire perché davano fastidio. Per l’associazione "Reporter senza frontiere", negli ultimi 15 anni ne sono stati uccisi quasi 1500. Il reportage di guerra nasce nel 1854, quando il “Times” invia un proprio corrispondente, l’irlandese William Russell, in Crimea. Fino ad allora le notizie erano pervenute dal fronte solo grazie ai servizi di alcuni ufficiali incaricati dall’autorità militare. Resoconti pieni di retorica e di verità di comodo. Ma e’ il Vietnam lo spartiacque nella storia del giornalismo di guerra. Gli inviati raccontano al mondo la "sporca guerra" senza censure. Una guerra che finisce dalle trincee direttamente nelle case degli americani. Solo in Vietnam i morti fra i reporter sono stati 68. Una svolta ulteriore nel reportage di guerra, che ci porta alla realta’ di oggi, e’ avvenuta sicuramente durante la guerra del golfo numero uno. Per la prima volta la guerra in diretta televisiva, anche se sicuramente filtrata dal comando militare americano da una parte e condizionata dal regime di Saddam dall’altra. Lampi di guerra, solo lampi. La testimonianza e’ sempre piu’ complicata e sempre piu’ rischiosa. Soprattutto nei tanti conflitti cosiddetti invisibili. Dagli anni novanta ad oggi sono cinquecento i reporter uccisi durante l’esercizio della professione: giornalisti, operatori, fotografi. Di tutte le nazionalita’. E in tutto il mondo: nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan, in Cisgiordania, in Algeria, in Cecenia. Solo nei Balcani le vittime fra i reporter sono state 61. Il triste primato assoluto spetta pero’ all’Argentina dei colonnelli negli anni 70: 110 reporter uccisi. Terribili anche gli anni novanta con la disgregazione dell’ex Jugoslavia. Quante vittime, a Sarajevo e a Zagabria. Soprattutto per colpa dei cecchini. I giornalisti erano fra i bersagli preferiti dell’esercito serbo. Ricordo in Croazia i funerali di Livko Kristevic, trent’anni appena, ucciso da un colpo a tradimento a Karlovac. Faceva l’operatore per l’agenzia Wtn. Queste sono le sue ultime immagini. Diceva: “Io sono croato, faccio l’operatore come facessi il soldato. E’ la mia guerra. E so che l’occhio della telecamera puo’ essere piu’ importante di un cannone. Il cannone puo’ uccidere dieci nemici, la telecamera puo’ far vincere la guerra”.

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La Torre di Babele

Kabul, la città che non c'è

Sequestro di persona

Armir, l'esercito perduto

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