Sunday, September 30, 2007

Siamo tutti birmani


"Una macchia di rosso, colore simbolo della rivolta del popolo birmano, sui media italiani come segno di solidarietà ai colleghi e ai cittadini che rischiano la vita in queste ore in Myanmar in nome della libertà". Questa la proposta lanciata da Information Safety and Freedom, che sostiene l’iniziativa lanciata dai conduttori del Tg1 e propone di allargarla a tutti. "I media comunicano attraverso simboli e grafica. Se i giornali e i telegiornali uscissero con un segnale visibile di solidarietà nell’abbigliamento dei conduttori di tg o nella grafica dei giornali, questo darebbe testimonianza della compattezza della categoria al fianco dei colleghi presi di mira dalla repressione della giunta militare birmana e a sostegno della pacifica protesta del popolo e dei monaci di quel Paese. La battaglia per i diritti umani non ha confini. Oggi siamo tutti birmani, così come ci sentiamo iraniani, iracheni, afghani, russi, cinesi, colombiani, filippini. La repressione sanguinaria della vita e della libertà dell’uomo non può mai essere considerata un «affare interno». La libertà è affare di tutti. A cominciare dai giornalisti".
L'ultimo blogger da Rangoon

Thursday, September 27, 2007

Così muore un fotoreporter



Giace a terra Kenji Nagai, il fotoreporter giapponese della Afp, colpito a morte dalla polizia birmana. Prima di spirare ha ancora la forza di fare l'ultimo scatto. Nagai, 52 anni, è stato colpito da spari nei pressi della pagoda di Sule, dove manifestavano oltre diecimila persone. A documentare il momento drammatico della sua morte è un collega della Reuters. Vedete proprio il momento del suo assassinio: ferito sta ancora fotografando quando un poliziotto passando gli spara a morte. Resta a terra esanime mentre i militari birmani corrono ad accanirsi sulla folla. Sembra che sia stato ucciso anche un reporter tedesco, ma la notizia non è confermata. In Birmania caccia ai giornalisti stranieri

Permettetemi una nota personale. Spesso la nostra categoria è attaccata, non rispettata, derisa. A tavolino si fanno analisi e si fanno le pulci al rimborso spese come se i soldi (ma neppure è vero: guadagniamo quanto quelli che seguono Miss Italia) servissero a cacciare paure e pericoli.
Basterebbe questa foto per capire il destino di un reporter. Quell'estremo atto di testimonianza è doloroso e commovente. Un simbolo di una categoria a cui mi sento fiero di appartenere.
Forse adesso qualche imbecille capirà perchè divento una bestia quando si attacca chi fa il mio mestiere. Quest'immagine dà il senso fisico dei rischi. Non è un film: quel fotografo coreano, nè più ragazzino nè eroe, è morto davvero. Facendo come ultimo atto quello che ha sempre fatto: raccontare una strage, i mali del mondo.
Per me in qualche modo è normale. Sto a Kabul, semplicemente a lavorare. Ma basta uscire e la tua vita è in mano a chi sta molto, ma molto più in alto di noi.


Basterebbe anche la caccia che i birmani danno ai giornalisti per capire l'importanza dei testimoni. Sono scomodi, scomodissimi. Se non ci fossero stati i reporter nessuno saprebbe adesso cosa sta succedendo, il massacro. La cosa ignobile è che tutti vogliono sapere tutto ma poi sono contro la categoria degli inviati: se non ci fossero loro come potrebbero sapere e discutere? Purtroppo ci sono i cretini anche fra noi, come il direttore di Libero che si permette di dire che "è uguale stare a Milano o a Baghdad". Certo, così sarebbe tutto omologato con un paio di telefonate alle fonti, cioè ai padroni del mondo. Le testimonianze forti che invece arrivano dalla Birmania stanno indignando tutti e forse questa carneficina di un regime protetto dai grandi finirà. Non invidio per niente i colleghi, coraggiosissimi, che stanno adesso a Rangoon.

Iraq, morto un altro reporter

Un commando armato ha ucciso ieri a Baghdad il giornalista iracheno Jawad Saadun al Daami, che lavorava per l'emittente tv 'al Baghdadiyah'. Lo hanno riferito fonti di polizia citate dall'agenzia Aswat al Iraq, secondo cui "uomini a bordo di un'auto hanno intercettato al Daami nel quartiere al Qadissiyah e lo hanno ucciso a colpi d'arma da fuoco". Con al Daami, 40 anni, sposato con figli, sale ad almeno 236 (secondo una stima effettuata dall'Iraqi Journalist Union) il numero dei reporter uccisi in Iraq dall'inizio della guerra nel 2003.

Ucciso giornalista critico con il governo

Salvador Sanchez, noto giornalista salvadoregno è stato ucciso mentre usciva dalla sua abitazione per recarsi al lavoro. Sanchez lavorava per tre emittenti considerata di "sinistra" e critiche nei confronti del governo conservatore di Antonio Saca. Secondo quanto diramato dalla polizia non ci sarebbero testimoni oculari dell'omicidio. Gli inquirenti escludono che l'assassinio del giornalista sia avvenuto a scopo di rapina considerando che a Sanchez non è stato rubato alcun effetto personale. Il padre del giornalista ha fatto sapere che negli ultimi tempi il figlio era molto preoccupato.

Saturday, September 22, 2007

Monem è libero


Vi ricordate di Monem? Il giornalista-blogger egiziano arrestato ad aprile scorso in Egitto? Ne parlò il friends vegekuu qui su Blogfriends, post poi ripreso sul mio blog. Bè, Monem finalmente è stato liberato dalle autorità egiziane il 2 giugno di quest'anno dopo essere stato interrogato per ore sui blog e i blogger. Mi piace pensare che anche la solidarietà che gli abbiamo regalato e le firme a sostegno della petizione per la sua liberazione venute da ogni parte del mondo siano servite a qualcosa. Almeno a farlo sentire meno solo. Miracoli del web? (Colgo l'occasione per ringraziare della citazione immeritatamente ricevuta dal blog creato a supporto della causa di Monem) BlogFriends

Myanmar, violenze contro la stampa libera


La Burma Media Association ha denunciato il continuo ricorso alla violenza contro i giornalisti che tentano di coprire le quotidiane manifestazioni sull'aumento del costo della vita che durano dal 19 agosto. In un solo mese sono state verificate 24 gravi violazioni della libertà di informare. Tali violazioni sono state compiute da poliziotti, militari, membri dell’USDA (milizia pro-giunta) o responsabili governativi della censura. Privati di ogni sorta di informazione indipendente, numerosi cittadini ascoltano i servizi in birmano di radio internazionali (RFA, VOA, BBC, DVB) e guardano clandestinamente le emissioni settimanali della catena televisiva DBV TV. Intanto l'Ufficio della censura sta negando sistematicamente la pubblicazione di ogni articolo che tratti l'argomento manifestazioni. I responsabili dei media privati hanno ricevuto l'ordine di pubblicare solo articoli favorevoli al governo e ostili al "nemico sia interno che esterno". Situazione insostenibile nell'ex Birmania se anche i monaci protestano

La Turchia blocca Youtube

Reporters sans frontières ha denunciato la decisione di un tribunale turco di bloccare l'accesso al sito di videosharing YouTube, lo scorso 18 settembre 2007. "Decidere di bloccare tutto il sito solo a causa di qualche video è certamente una misura sproporzionata. Chiediamo alle autorità di revocare questa decisione," ha dichiarato l'organizzazione. L'oscuramento di YouTube è stato deciso dopo l'inserimento on-line di alcuni filmati considerati insultanti nei confronti del fondatore della Repubblica turca, Mustafa Kemal Atatürk, il presidente Abdullah Gül, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e l'esercito. Sarebbe stato un abitante della città di Sivas a lamentarsi del contenuto dei filmati. Secondo quanto è stato riferito dall' Agenzia di stampa nazionale, Anatolia, il Consiglio turco delle Telecomunicazioni è stato incaricato dalla corte di proibire progressivamente l'accesso al sito. I responsabili di YouTube hanno affermato in un comunicato, poi diffuso da Anatolia, di essere pronti a cooperare con le autorità per risolvere rapidamente la questione. A marzo, il sito YouTube era già stato bloccato da un tribunale turco. L'accesso era stato ristabilito dopo che i filmati considerati oltraggiosi dalle autorità erano stati eliminati.

Fu licenziato per colpa di Bush


L'anchorman autore dello scoop (poi smentito) sui guai di Bush durante il servizio militare, fa causa alla Cbs che lo ha licenziato.«Hanno deciso di sacrificare il giornalismo indipendente a favore di guadagni finanziari» ha detto Rather. La sua rimozione avvenne nel marzo del 2005, mentre la storia dello scoop «azzoppato» è del settembre dell'anno precedente. Dalla diffusione delle notizie sulle presunte mancanze del giovane Bush (e delle relative smentite) fino al momento dell'allontanamento effettivo, Rather subì alcuni declassamenti, prima con la riduzione del programma "60 minutes" e poi con la sua sostituzione alla conduzione delle "Evening News". Corriere.it

Somalia, chiude un'altra radio

L’emittente indipendente somala ‘Radio Shabelle’ ha pubblicato oggi sul suo sito web un comunicato in cui denuncia la chiusura delle trasmissioni dopo il violento attacco subito nei giorni scorsi dalle forze armate del governo di transizione di Mogadiscio, che ha distrutto gran parte delle sue attrezzature. “E’ con tristezza che annunciamo la sospensione delle attività – recita il documento – poiché i colpi d’arma da fuoco sparati per oltre due ore e mezza contro i nostri uffici hanno provocato danni incalcolabili che ci impediscono di continuare ad operare”. L’attacco, definito dal direttore di Shabelle, Yusuf Mahmoud Abdimaaliki, “un attentato alla libertà di informazione nel paese”, è solo l’ultimo dei pericoli che “continuamente minacciano le nostre strutture e la vita dei nostri giornalisti”. Secondo Abdimaaliki, durante l’assedio di ieri alla redazione, gli oltre 30 tra giornalisti e membri dello staff presenti, si sono nascosti sotto i tavoli per sfuggire ai proiettili che entravano dalle finestre e le porte. Ancora uno dei tecnici della stazione radio sarebbe intrappolato nell’immobile circondato dall’esercito. “Facciamo appello ai giornalisti locali ed internazionali perché esercitino pressioni sul governo somalo al fine di far evacuare completamente lo stabile e garantire la libertà di espressione e informazione in Somalia”. Di fatto nelle ultime 24 ore l’emittente non ha effettuato alcuna trasmissione.

Parnaz Azima lascia Teheran

Parnaz Azima, la giornalista di Radio Farda, l'emittente statunitense in lingua farsi, ha lasciato l'Iran dopo otto mesi. La giornalista, che ha la doppia cittadinanza iraniana e statunitense, era giunta in Iran a gennaio per far visita alla madre malata. Subito dopo il suo arrivo le erano stati tolti i due passaporti. Azima era accusata di ''propaganda anti regime'' e ''spionaggio a favore di potenze straniere'', ed era libera dietro il pagamento di una cauzione di 450mila euro. Azima, che è giunta a Praga, dove ha sede Radio Farda, ripartirà per gli Stati Uniti per un periodo di riposo.

Giornalisti inglesi aggrediti a Pechino

Reporters sans frontières da duramente condannato il trattamento riservato a due giornalisti britannici Andrew Carter e Aidan Hartley e al loro stringer cinese Dean Peng, collaboratori del programma "Unreported World" del canale televisivo britannico Channel 4. Lo scorso 14 settembre, durante un sopralluogo in un quartiere di Pechino ovest per un reportage su alcuni firmatari di una petizione arrestati dalla polizia, i giornalisti sono stati aggrediti da alcuni impiegati di un centro di detenzione illegale. Alcuni funzionari della città di Nanyang hanno picchiato i reporter, cercato di sequestrare e rompere le loro telecamere. Quando la polizia è arrivata, gli aggressori hanno smesso di aggredire fisicamente i giornalisti ma questi ultimi sono stati immediatamente fermati dai poliziotti. Andrew Carter e Aidan Hartley sono stati interrogati per sei ore. Gli agenti dell'Ufficio della sicurezza pubblica hanno chiesto loro di firmare un documento con il quale avrebbero ammesso di aver violato la legge cinese. Davanti al loro rifiuto, gli agenti hanno cercato di intimidirli e hanno rifiutato loro cibo e acqua. Lo stringer è stato fermato per un totale di 16 ore. Secondo quanto Dean Peng ha riferito, la polizia voleva costringerlo a smettere di lavorare con i giornalisti stranieri. Questo nuovo caso sottolinea il non-rispetto da parte delle autorità cinesi della normativa che dovrebbe regolare l'attività di tutti i giornalisti stranieri in Cina, adottata nel mese di gennaio 2007.

Cina, liberati dopo anni di prigione

Zhao Yan, collaboratore cinese del quotidiano americano New York Times è stato liberato. La sorella del giornalista ha confermato che il reporter è uscito dal carcere della capitale cinese dove era detenuto, la mattina del 15 settembre. Bill Keller, direttore del New York Times, ha espresso la sua gioia per la liberazione di Zhao Yan in un comunicato. «Abbiamo sempre sostenuto che Zhao Yan fosse un giornalista rispettabile e un vero professionista, il cui unico reato sembra essere stato quello di aver fatto il suo mestiere. Ora speriamo che Zhao Yan, dopo aver scontato la sua condanna, possa riprendere il suo lavoro senza restrizioni di alcun tipo». Il 13 settembre, anche il giornalista e cyberdissidente Li Yuanlong era stato liberato. Arrestato il 25 settembre 2005 nella provincia di Guizhou (Sud), il giornalista era poi stato condannato a due anni di detenzione con l'accusa di "sovversione". Secondo quanto ha riferito il sito Boxun, la sera del 13 settembre 2007, le guardie del carcere hanno chiesto a Li Yuanlong di prendere i suoi effetti personali. Dopo numerosi controlli, alcuni poliziotti hanno riportato il giornalista a casa durante la notte. La famiglia di Li Yuanlong lo ha accolto con sorpresa perché le autorità avevano rifiutato fino ad allora di confermare la data esatta della liberazione del prigioniero. Numerosi difensori dei diritti umani si sono recati nella sua abitazione, il giorno dopo la liberazione, per salutarlo e verificare le sue condizioni fisiche. Giornalista del quotidiano locale 'Bijie Ribao', Li Yuanlong scriveva con lo pseudonimo di Ye Lang ("il lupo della notte") e spesso evocava la problematica della povertà che colpisce le zone rurali della Cina. Aveva inoltre scritto alcuni saggi pro-americani pubblicati da siti Internet basati all'estero.

Fatwa contro vignettista svedese

Abu Omar al Baghdadi, il leader dello “Stato islamico dell'Iraq”, ha lanciato due giorni fa su internet un appello per uccidere Lars Vilks, autore di una vignetta su Maometto, e Ulf Johansson, caporedattore di un quotidiano locale svedese che l'ha pubblicata per primo. Ha promesso inoltre una ricompensa di 100mila dollari per l'uccisione del vignettista (150mila se sgozzato) e 50mila dollari per l'uccisione del caporedattore. Ha chiesto le scuse dei “crociati” di Svezia minacciando di prendersela in caso contrario con le grandi industrie del Paese scandinavo, come Ericsson, Scania, Volvo, Ikea o Electrolux. Il vignettista, sotto protezione della polizia, è rientrato in Svezia dopo un soggiorno in Germania ma le autorità non lo hanno per il momento autorizzato a tornare nella sua casa, ha spiegato il disegnatore all'agenzia svedese Tt. “La polizia ritiene che la situazione sia seria. Non posso dunque dire dove mi trovo”, ha spiegato. La pubblicazione, il 18 agosto, sul 'Nerikes Allehanda', un quotidiano locale della città di Orebro (a ovest di Stoccolma), di un disegno che rappresenta il profeta con un corpo di cane, ha dato vita a una durissima polemica in Svezia e all'estero. Nel Paese scandinavo sono state organizzate manifestazioni e si è scatenato un dibattito sui mass media nazionali sul dialogo e sul rispetto della libertà di stampa. Egitto, Iran e Pakistan hanno inoltre protestato attraverso canali diplomatici.

Nepal, morte misteriosa

Il corpo di Shankar Panthi, 34 anni, corrispondente del giornale promaoista 'Naya Satta Daily' edito nella città di Sunawal è stato ritrovato ai bordi di una strada. Il giornalista stava ritornando all'ufficio in bicicletta dopo aver realizzato un articolo sulla distruzione di un ufficio della Lega della gioventù comunista. La polizia ha subito privilegiato la tesi di un incidente stradale, arrestando anche un conducente di bus, ma la morte del giornalista è più che sospetta. L’Associazione dei giornalisti non scarta affatto la tesi dell'omicidio e ha richiesto che sul suo corpo sia effettuata una autopsia condotta da tre medici, per garantire l'imparzialità del verdetto. Abitanti della città di Sunawal, ancora meno convinti della tesi della polizia, hanno bloccato per ore alcune strade e il mercato locale per fare pressione sulle autorità locali al fine di richiedere una onesta inchiesta sul fatto.

Monday, September 17, 2007

Contro Guantanamo


Protesta davanti all'ambasciata americana a Seul (Corea del sud) a favore della chiusura del carcere di Guantanamo.

Condannati a morte in ventitrè minuti



Essere giornalisti nella Repubblica Islamica di Mahmoud Ahmadinejad, soprattutto se non allineati con l’attuale governo, è un reato grave. Lo hanno denunciato proprio in questi giorni 120 tra le più prestigiose firme del giornalismo iraniano, in una lettera indirizzata al governo, nella quale denunciano le forti pressioni che subiscono ogni giorno nell’esercizio della loro professione. L’associazione Reporters sans frontières continua a definire la Repubblica Islamica «la più grande prigione dei giornalisti nel Medio Oriente». L’Iran ha anche un altro primato, quello di essere il secondo paese, preceduto solo dalla Cina, per il numero delle condanne a morte eseguite, che sono ormai quotidiane. Le grandi agenzie internazionali aprono i loro notiziari trasmessi da Teheran con la notizia della condanna, o delle condanne, eseguite o emesse in giornata. Due di queste condanne emesse recentemente dal Tribunale della Rivoluzione di Sanandaj, nel Kurdistan iraniano, riguardano due giovani curdi. Adnan Hassanpour e Hiwa Boutimar, ex redattore del settimanale Asu, chiuso nell’estate del 2005 dopo alcune manifestazioni nelle città curde, per la sola ragione di aver informato la cittadinanza delle richieste dei manifestanti, sono stati condannati, lo scorso 17 luglio, alla pena di morte. Sono stati definiti dalla corte rivoluzionaria mohareb, nemici di Allah. Non sono i primi a essere condannati per questo reato che non è mai stato definito nel codice penare iraniano. Sono nemici di Allah i trafficanti di droga, gli omosessuali, i laici e i controrivoluzionari. Praticamente tutti possono essere definiti nemici di Allah, a maggior ragione se, come Adnan e Hiwa, si tratta di giornalisti, ambientalisti, laici e socialisti. Adnan e Hiwa sono stati condannati in un tribunale a porte chiuse: non era consentito essere presenti nemmeno agli imputati e ai loro due avvocati. I due difensori hanno appreso della condanna a morte per impiccagione dei loro assistiti solo dopo che le famiglie dei due giornalisti avevano ricevuto la comunicazione giudiziaria. Adnan e Hiwa, trasferiti qualche giorno prima del processo, durato 23 minuti, dal carcere della loro città, Marivan, al centro di detenzione del ministero dell’Intelligence a Sanandaj, hanno saputo della loro condanna a morte casualmente e una settimana dopo. Da allora hanno iniziato uno sciopero della fame, che dura ormai da due mesi. Ahmad Rafat Appello per Adnan e Hiwa

Volevano documentare il dramma di Gaza

"I servizi di sicurezza di Hamas nella Striscia di Gaza hanno arrestato sei giornalisti arabi", a sostenerlo è l'agenzia di stampa Palestine Press vicina al movimento di Fatah. I reporter sarebbero stati assaliti dalle milizie di Hamas mentre tentavano di assistere alla preghiera del venerdì in piazza El Katiba a Gaza. Fatah aveva chiesto ai suoi sostenitori a Gaza di andare a pregare nella piazza come segno di protesta contro Hamas. E secondo l'agenzia di stampa, le milizie di Hamas hanno assalito i cronisti distruggendo i loro apparecchi fotografici e confiscando i registratori. I reporter rapiti sono Salem Abu Salem, fotografo dell'agenzia di stampa Palestine Press; Zakaria Abu Herbid e Mohammed Abu Seidu, rispettivamente reporter e fotografo dell'agenzia di stampa Ramatan; Sawah Abu Seif, giornalista di una televisione tedesca e un suo assistente; Ibrahim Iaghi, cronista di una televisione giapponese.

Cina, vietate poesie su Tienanmen

La raccolta di poemi sugli avvenimenti del giugno 1989, "Liusi Shiji" ("Raccolta sul 4 giugno"), è stata inscritta nella lista delle opere proibite. Jiang Pinchao, coordinatore della raccolta, contattato da Radio Free Asia, ha dichiarato: "Non siamo minimamente sorpresi da questa censura. Le autorità non vogliono alcun turbamento pubblico in occasione della apertura del loro Congresso che avverrà il 15 settembre". Il libro è stato proibito fino alla fine dell'anno. In caso di non adempimento alla proibizione la raccolta verrebbe confiscata in tutte le librerie.

Iran, nuovi attacchi contro la stampa

L’ayatollah Khamenei ha di nuovo violentemente attaccato i media iraniani accusandoli di "malevolenza" e di "collaborazione con i media stranieri". L’ayatollah ha ugualmente denunciato "l'esagerazione" dei titoli degli articoli che avevano salutato, il 3 settembre scorso, la nomina dell'ex presidente della Repubblica Akbar Hashemi Rafsanjani alla testa dell'Assemblea degli esperti (il conclave politico-religioso a cui la Costituzione iraniana attribuisce il potere di scegliere la Suprema Guida, contestarne le scelte ed eventualmente imporne le dimissioni). Tali dichiarazioni seguono di appena una settimana la pubblicazione di un comunicato, firmato da 150 giornalisti, che protestavano contro il degrado della situazione della libertà di stampa nel Paese. Nel testo, essi denunciavano la convocazione di molti direttori di giornali da parte del procuratore di Teheran, Saïd Mortazavi, per impedir loro di pubblicare notizie riguardanti la sorte di tre studenti incarcerati da tre mesi per aver reso pubblici articoli giudicati "anti-islamici". Intanto la giornalista irano-americana di Radio Farda, Parnaz Azima, è stata convocata da agenti del ministero dell'Informazione, che le hanno comunicato che poteva ritirare il passaporto e quindi lasciare il Paese. La giornalista (al centro di una querelle internazionale) aveva visto confiscare il passaporto al suo arrivo in Iran nel gennaio 2007 mentre tornava a visitare la madre gravemente malata. La giornalista è tuttora perseguita nel Paese per "attività controrivoluzionaria e azioni contro la sicurezza dello Stato".

Marocco, libertà ancora lontana


Mentre le elezioni che si sono appena tenute dovrebbero dimostrare il livello di sviluppo democratico del Marocco, la libertà di stampa è messa in discussione da alcuni recenti provvedimenti. Il direttore e uno dei redattori del settimanale 'Al Watan Al An' sono stati condannati per aver pubblicato notizie riservate sul piano antiterrorismo del governo e Ahmed Benchemsi, il direttore dei giornali 'TelQuel' e 'Nichane', è sotto processo per un editoriale che criticava il re e che è stato considerato “offensivo”. Dall’ascesa al trono di re Mohammed VI, nel 1999, bene 34 testate sono state censurate e 20 giornalisti sono stati condannati a pene detentive. In questo clima surriscaldato, non manca un aspetto che può far sorridere: se Benchemsi è sotto processo è perché gli viene rimproverato, come scrive lui stesso, non tanto il contenuto del suo articolo, quanto il fatto che si rivolgesse al re in “darija”, l’arabo parlato in Marocco, considerato lingua nazionale da alcuni e un dialetto volgare da altri. Mélange di parole spagnole, portoghesi, francesi e berbere, oltre che arabe, il marocchino è la lingua del popolo e quella in cui è scritto il giornale 'Nichane', mentre l’arabo classico è preferito dalle élite e considerato un elemento unificatore del mondo musulmano. Benchemsi, difendendosi dalle accuse, sottolinea che i testi del governo sono scritti in arabo classico, mentre “il solo documento ufficiale in marocchino resta, fino ad oggi… il Codice della strada!” E commenta: “Lo Stato sostiene la propaganda ufficiale che vuole assimilarci, volenti o nolenti, agli Arabi mediorientali, ma quando si tratta di questioni di vita o di morte (al volante) non si scherza più: bisogna comunicare nella lingua del popolo, la sola che si comprenda chiaramente”.

Pestaggio in diretta

Un giornalista australiano della rete televisiva "Seven" e' stato buttato a terra e picchiato da due uomini fuori dalla stadio, ieri a Melbourne,subito dopo aver assistito ad una partita del campionato di rugby. Ben Davis, cosi' si chiama il giornalista, non ha subito gravi lesioni ma la polizia ha potuto arrestare i suoi aggressori perche' il pestaggio e' avvenuto in diretta e le telecamere del network australiano hanno continuato a riprendere tutto. Il filmato

Arrestato giornalista palestinese

Faeq Jarada, un giornalista della televisione pubblica palestinese, è stato arrestato ieri sera nella città di Gaza dalla polizia di Hamas, secondo quanto hanno rivelato alcuni testimoni oculari e i suoi familiari. Jarada sarebbe stato prelevato dalla sua abitazione da agenti della Forza esecutiva del movimento islamista. Nel blitz sarebbero state sequestrate diverse videocassette. Hamas aveva annunciato l'intenzione di applicare una legge sulla stampa del 1995, che l'allora presidente Yasser Arafat aveva voluto per meglio controllare l'informazione. La legge, di fatto, non era mai stata applicata, anche se formalmente è sempre restata in vigore. Condannata dai giornalisti palestinesi, la normativa tra l'altro vieta la pubblicazione di notizie atte a compromettere l'unità nazionale e di diffondere informazioni segrete sulla polizia e le forze di sicurezza.

Cile 1973: quattromila vittime, anche reporter



Anche quest'anno ISF rende omaggio ai 68 operatori dei media (21 giornalisti, 20 fotoreporter o cameramen, 27 grafici o tipografi) - che figurano tra le oltre 4.000 persone uccise o scomparse durante la dittatura di Augusto Pinochet, iniziata l’11 settembre 1973 e conclusasi nel 1986. La maggior parte degli operatori dei media uccisi furono arrestati, torturati e assassinati nella settimana che seguì il colpo di Stato, ma una legge promulgata dalla giunta nel 1978 amnistiò tutti i crimini commessi anteriormente. Durante gli anni ‘80 altri giornalisti furono uccisi durante la repressione che seguì un’ondata di proteste che fecero da preludio alla fine della dittatura. L’ultimo giornalista ucciso dalla dittatura fu José Carrasco Tapia. Nel luogo dove il suo corpo fu ritrovato massacrato, un monumento alla memoria dei giornalisti uccisi o scomparsi durante il regime di Pinochet fu inaugurato l’8 settembre 1999.

A Guantanamo, in fin di vita

Lontano dalle telecamere, dai palazzi del potere, dal Pentagono e dalla Casa Bianca, si consuma l'altra faccia della guerra al terrorismo: quella dei dimenticati o dei senza nome, a volte incolpati o incarcerati per semplici sospetti di terrorismo. E' il caso di Sami al-Hai, un giornalista sudanese di Al Jazeera catturato sei anni fa in Afghanistan e da allora detenuto nella prigione americana di Guantanamo, senza accuse formali, senza un processo a suo carico. E' il britannico Independent, nella sua edizione online, a raccontare la storia. Sami, da giorni in sciopero della fame, si starebbe lasciando morire. Lo ha detto un'equipe di medici psichiatri inglesi e americani che lo ha visitato. Il suo si appresta a diventare così il quinto caso di "suicidio passivo" avvenuto a Guantanamo, dopo quello di tre sauditi e di un yemenita, tutti e quattro trovati morti suicidi nelle loro celle nel centro di detenzione a Cuba. Sami al-Hai, di 38 anni, fu inviato in Afghanistan all'indomani dell'invasione statunitense nell'ottobre del 2001. Il mese successivo lasciò il Paese diretto per il Pakistan insieme alle troupe di Al Jazeera; tentò di tornare in Afghanistan solo dopo aver ricevuto un nuovo visto di ingresso all'inizio di dicembre. Fu allora che Sami venne arrestato dalle autorità pakistane su ordine del comando statunitense. Venne poi consegnato alle autorità americane nel gennaio del 2002, deportato nel centro di detenzione di Bagram in Afghanistan, poi a Kandahar, e successivamente approdò a Guantanamo nel giugno del 2002. La storia

Tutte le bugie del Cremlino



Fra tre settimane sarà il primo anniversario della morte di Anna Politovskaya. Sotto accusa naturalmente (da subito) il Cremlino a cui la coraggiosa giornalista russa da tempo creava grattacapi. E proprio con il montare della reazione internazionale, Putin - dopo un silenzio agghiacciante - adesso sforna notizie ogni giorno. Arresti gratuiti, incriminazioni improbabili frutto di un'inchiesta dai contorni misteriosi visto che sono stati cacciati di botto gli investigatori che indagavano sull'omicidio sostituiti non si sa da chi. Stamattina a Mosca hanno catturato Shamil Durayev: sarebbe lui, secondo le autorità, ad aver organizzato l'assassinio di Anna. Insomma, il mandante. Bisogna sapere però che l'obiettivo degli attacchi della Politovskaya è sempre stato Ramzan Kadirov, presidente ceceno pupazzo del Cremlino. Lo aveva sempre accusato direttamente, anche nell'ultimo articolo, per le torture a Grozny. E proprio Kadirov aveva cacciato Durayev: nel 2003, tre anni prima dell'omicidio di Anna. Insomma Durayev nemico giurato di Kadirov: e perchè doveva uccidere la giornalista? Mi ricorda tanto quando fui rapinato a Mosca, nell'immediato post-comunismo. Quando andai al commissariato per la denuncia, mi fecero vedere le foto segnaletiche di tutti ricercati ceceni. Io, che frequentavo da due anni la Russia e capivo molte parole, a spiegare: ma no, sono russi, non ceceni. E loro niente: sono ceceni, siamo sicuri. So anche, per tornare alla notizia di oggi, che la "Komsomolskaya Pravda" (la verità dei giovani comunisti) che ha lanciato ed enfatizzato l'arresto è vicinissima a Putin. Probabilmente ha ragione Ilia, il figlio di Anna: "In Russia è cominciata la campagna elettorale e c'è chi vuol ripulirsi la faccia". Il popolo russo è paziente, fatalista ma non stupido. E soprattutto non dimentica. L'inferno Cecenia

Egitto, condannati ai lavori forzati

Un anno di lavori forzati, 25mila lire egiziane (circa 2.500 euro) e 10mila lire egiziane (circa 1.300 euro) di cauzione. Durissima la condanna emessa da un tribunale del Cairo nei confronti di 4 direttori di giornali. Secondo la sentenza, Abdel-Halim Qandil (settimanale “Karama”), Ibrahim Issa (nella foto, quotidiano “El Dostur”), Adel Hammouda (settimanale “Al Fagr”) e Wael Al-Abrashi (quotidiano “Sawt al-Umma”) sono colpevoli di “aver nuociuto alla reputazione della Nazione, diffondendo consapevolmente notizie false e tendenziose”. Avverso la sentenza, i quattro giornalisti egiziani hanno deciso di presentare ricorso. Intanto, Ibrahim Issa, direttore di “Al-Dostur”, quotidiano vicino ai Fratelli Musulmani, fra pochi giorni dovrà comparire di nuovo in tribunale, per aver dato risalto alle voci che, alla fine di agosto, davano insistentemente per morente, se non già addirittura cadavere, il presidente egiziano Hosni Mubarak. Voci, subito rimbalzate all’estero, che avevano poi costretto lo stesso Rais a comparire in pubblico e in TV per dimostrarne l’infondatezza. All’origine della condanna dei 4 giornalisti c’è la denuncia di Ibrahim Rabe’a Abdel-Rasul, un oscuro avvocato, membro dell’onnipotente Partito Nazional-Democratico. L’accusa: aver diffamato, con una serie di articoli pubblicati fra luglio e settembre 2006, il presidente egiziano Mubarak, suo figlio Gamal (vice-segretario generale del Partito), il Primo Ministro Ahmed Nazif e il Ministro dell’Interno. In realtà, gli articoli si limitavano a tentare di far luce sulle oscure manovre (e gli intrighi all’interno del partito) per la successione di Hosni Mubarak, e per averne indicato proprio il suo rampollo Gamal (44 anni) come il più probabile erede alla presidenza. Malgrado le recenti, timide aperture del regime nei confronti della stampa scritta (per la TV egiziana c’è ancora molto da attendere) quello della successione è tuttavia ancora uno dei tabù più inattaccabili: nessuno, per alcun motivo, ha il diritto di criticare il capo dello Stato e il suo “entourage” più stretto. Condannando quattro notissimi esponenti della stampa cosiddetta indipendente, il messaggio è apparso a tutti chiarissimo. Marc Innaro Articolo21